Dischi
Gigaton: sono i Pearl Jam i veri chiaroveggenti
“Ed ha un attaccamento all’acqua molto vicino, concreto. Ci è rimasto legato lungo tutta la nostra carriera […] Dobbiamo ricordare che gli essere umani sono per il sessanta per cento fatti d’acqua. Ogni volta che vado in riva al mare mi sento rinato“. Erano queste le parole di Stone Gossard riguardo “Amongst the Waves”, traccia numero sei di “Backspacer”. Il connubio tra Pearl Jam e uno dei quattro elementi naturali risale, però, alle origini, quando a Seattle, dall’angolo dello scantinato allora eletto a sala prove, accordando una chitarra, proprio Stone accenna degli accordi. Tutti lo seguono, non ultimo Eddie che sente quell’arpeggio talmente intimo da comporne un karma personale. Nasce così “Release”, canzone dell’onda da cavalcare per affrontare e andare oltre il dolore. Poi c’è “Oceans”, la distesa a perdita d’occhio che divide due amanti: l’andirivieni ritmico dei flutti è un poseidonico terzo incomodo da temere e rispettare. Attraverso la corsa sotto la pioggia liberatrice ed espiativa di “Inside Job” si giunge, su una tavola da surf, ai lidi tranquilli di “Amongst the Waves”, in un rito di alleanza, resa e rinascita con il mare (“I can feel like I have a soul that has been saved”).
Pubblicato dopo sette anni di “pausa discografica” per Monkey Wrench Records/Republic Records, in data 27 marzo 2020, giorno cerchiato in rosso sul calendario dei fan di tutto il mondo, anche l’undicesimo album dei Pearl Jam riserva una posizione privilegiata alla componente acquatica, già dalla copertina. Lo scatto di Paul Nicklen, diventato l’artwork ufficiale, mostra la calotta dell’isola di Nordaustlandet, in Norvegia: un focus imponente sull’allarmante scioglimento dei ghiacciai, di proporzioni tanto apocalittiche da essere quantificato in “Gigaton”, titolo del disco e unità di misura che corrisponde a un miliardo di tonnellate. L’acqua delle cascate di disgelo diventa, allora, simbolo di un danno irreparabile, consequenziale all’abuso del Pianeta da parte dell’uomo e metafora, anche, della realtà liquida strabordante di tempeste economiche, civili e sociali in cui siamo immersi.
Una realtà più che mai liquida nel “qui ed ora” dell’uscita ufficiale, a causa dell’emergenza sanitaria mondiale che ha comportato – e comporterà – una radicale metamorfosi, individuale e universale. Nel frangente in cui l’unica certezza è la mancanza di certezza, Vedder e compagni non solo offrono la chiave di lettura per approcciarsi alla contemporaneità – rabbia come forma di denuncia e speranza in un futuro di resilienza e condivisione (“positive, positive”) – ma sembrano già predire uno sconvolgimento della portata di quello attuale. “Gigaton”, dunque, assume una duplice connotazione di “unità di misura”, relativa alla fondamentale attitudine di affrontare il cambiamento. I cinque musicisti riacquistano l’ingombrante ma identitario ruolo di portavoce di una generazione, sulle cui dinamiche le rughe cinquantennali si intersecano agli iconici capelli lunghi e flanelle. Non solo. La band si mette di nuovo in gioco, non temendo il giudizio sempre troppo accondiscendente o sempre troppo pretenzioso (e pretestuoso) dello zoccolo duro di pubblico. Prosegue senza fretta o scadenze, ascoltando un’urgenza artistica propria, unica musa che muove penna e strumenti. Si affida ad un nuovo produttore, Josh Evans, già ingegnere e tecnico del suono di fiducia: è nel suo studio “di casa” che il concept prende forma; è qui che Vedder, Gossard, McCready, Ament e Cameron portano idee, provano, si lasciano ispirare, si confrontano con modalità inedite, componendo quando da soli, quando in coppia, mai tutti insieme.
Il risultato è una commistione di spunti da unire, incrociare, lasciar scorrere lungo un nastro più malleabile ed elastico, teso ad arricchire il passato, rinfrescare il presente, scrutando il futuro. Il risultato è anche il record di durata delle dodici tracce all’interno della discografia del gruppo. Cinquantasette minuti totali. Audace come scelta, soprattutto in tempi in cui l’ascolto in streaming e le proliferanti piattaforme online hanno favorito una fruizione bulimica e randomica della musica. Retroscena, invece, strabiliante se si pensa alla “quarantena forzata” come dilatazione temporale per premere play dal primo all’ultimo secondo (oltre che per dilettarsi nelle molteplici trovate hi-tech sviluppate nella fase pre-promozionale).
Chi l’avrebbe mai detto? “Gigaton” esordisce con tale quesito. “Who Ever Said” è un mantra benaugurante che esplode dopo un breve intro ambient, un biglietto di sola andata verso una dimensione scientifica-naturale. Un vivace saliscendi di ritmo e riff, nella sezione centrale, sfuma in un interludio che può riecheggiare quello del “Daughter Tag”. Seguono i primi due singoli pubblicati, in ordine inversamente cronologico: “Superblood Wolfmoon” è un pezzo garage rock costruito su un testo di ampia portata interpretativa. Un’assimilazione che cresce, ascolto dopo ascolto, pur non arrivando mai al picco di eccentricità di “Dance of the Clairvoyants”. A riguardo, si sono già approfondite le influenze che spaziano dal post punk di matrice inglese (Wire, Psychedelic Furs, Public Image Ltd) alla New Wave anni ’80, dai riferimenti più contemporanei (i Death Cab for Cutie o gli Editors più “elettronici”) alle fascinazioni soliste dei singoli membri dei Pearl Jam.
Degni di nota sono altri due aspetti. La fantasmagoria dei suoni perfezionati nei dettagli e lucidati grazie al mix in Dolby Atmos (una tecnologia che supporta fino a 128 oggetti sonori mantenendone le caratteristiche e assegnando loro una qualsiasi posizione nello spazio tridimensionale) e il potere evocativo della componente lirica. Vedder scopre le carte dell’ispirazione e mette sul tavolo amore, ricerca di perfezione, sguardo sulla realtà, desiderio di fuga, dualità tra positivo e negativo. Su quel tavolo, sembrano prendere vita delle ragazze che danzano, versione pittorica e cyberpunk delle ballerine delle opere di Degas. Nell’attualissima “Quick Escape”, definita da molti la vera hit del disco, si descrive un viaggio sconfinato che segue le orme di Kerouac (“And a Kerouac sense of time”). Le musiche di Ament teletrasportano su una navicella spaziale diretta su Marte, lontana dai luoghi contaminati da Donald Trump, coevo Attila, bersaglio politico per eccellenza. Beat campionati, distorsioni e cori su cui si staglia la voce del frontman sfociano nell’assolo dialogato di basso e della chitarra infuocata di McCready, per un flashback ad alcuni passaggi di “Above” dei Mad Season e ai Soundgarden di “Searching With My Good Eye Closed”. “Alright” sancisce la prima distensione di tono. Il ritmo, scandito fin dai primi secondi da una sorta di metronomo amplificato, accoglie una melodia bjorkiana, modellata sulle lamelle elettroniche della kalimba. Eddie assicura e rassicura riguardo la legittimità della solitudine (“It’s alright to be alone”), della negazione (“It’s alright to say no”), dell’autodeterminazione dell’individuo.
Sono le lancette di “Seven O’Clock” e della sua formula magica “much to be done” a pulsare nel cuore di “Gigaton”. Su una linea strumentale che cita, da una parte, una versione 2.0 di “Binaural” e, dall’altra, l’ultima veste più orchestrale di Springsteen, appaiono i personaggi di Toro Seduto (“Sitting Bull”) e Cavallo Pazzo (“Crazy Horse”), emblemi della rivolta al governo statunitense (qui il Presidente è apostrofato, in un’antitesi lessicale, “Sitting Bullshit”). Centrale diventa il testo snocciolato da Vedder, il quale si conferma brillante paroliere, durante gli abbondanti sei minuti di durata. Possono più o meno entusiasmare “Never Destination”e “Take the Long Way”, rappresentanti del più recente e confortevole rock sound dei Pearl Jam. La traccia numero sette, presentando il soggetto di Bob Honey, protagonista di una serie di libri di fantasia di Sean Penn del 2018, ricorda la struttura di brani come “Green Disease” e “Getaway”. La successiva è una creazione di Matt Cameron, la cui attitudine emerge nelle sfumature Seattle grunge e nei tempi irregolari della sezione ritmica. La sei corde di McCready è ancora una volta il perno attorno cui ruotano riff e assoli “vecchio” stampo.
Stone Gossard, invece, prende l’intera scena nella composizione di “Buckle Up”. È inconfondibile l’incedere originale e dinoccolato, tra una filastrocca e una ninna nanna. La linea vocale è più scanzonata e rilassata nel seguire il giro di quello che sembra un carillon vintage. “Comes and Goes” è il frammento più “solista” di tutto il lavoro, già non del tutto opportunamente additato come i “desiderata” di Vedder che suona con i Pearl Jam. Non è difficile immaginare l’artista mentre imbraccia la sua chitarra sul piccolo palco di una locanda (chi ricorda la scena girata per Twin Peaks, intonando “Out of Sand”?). Tinte folk rock alla Neil Young dipingono gli alti e bassi dell’esistenza. Andate e ritorni, conquiste e perdite. Lutti, anche. Come quello non del tutto rielaborabile relativo alla scomparsa dell’amico Chris Cornell, uno dei motivi delle molteplici interruzioni durante la lavorazione del disco. Si dice che l’onda acustica di “Comes and Goes” – che ricorda la linea dei battiti di “Gigaton” – sia dedicata proprio a lui.
L’undicesima fatica della band di Seattle, come da consuetudine, si chiude amplificando al massimo il trasporto emozionale. Il meccanismo di “odi et amo” nei confronti delle ballate è riattivato da “Retrograde”, la colonna sonora di una riflessione sul cambiamento climatico. Si percepisce un carattere celebrativo accostabile ad una soundtrack, impreziosito ulteriormente da piani sovrapposti, da intersezioni sottili di suoni e dall’impeto nell’epilogo, nell’eco di una “Release” che lancia il cuore oltre le increspature del dolore. Ecco, poi, “River Cross”, la perla finale. Dal Pump Organ del 1850, si libra una melodia romanticamente tribale, un inno alla condivisione (“share the light”), alla speranza, all’incredibile capacità dell’essere umano nel non arrendersi. Un’ode, dalla sacralità argentata, che cresce accompagnata dai timpani e si espande su scenari sconfinati, liberi. La coda conclusiva si colora in un caleidoscopio di suoni, brusii, attriti, fruscii. È come se il vento polare attraversasse un mosaico di tasselli vitrei. Gocce d’acqua che, dopo tanta attesa, dopo tanto tempo, tornano al proprio stato naturale, cristallizzandosi, di nuovo, in ghiaccio lucente.