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Interviste

John Qualcosa: “Si può Sopravvivere agli amanti, soprattutto in questo momento”

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Dopo nove anni di ispirata gestazione, i John Qualcosa presentano il loro disco d’esordio, “Sopravvivere agli amanti”. Il duo formato da AmbraMarie e Raffaele D’Abrusco plasma, in nove tracce autoprodotte, una vera e propria perla dalle molteplici sfumature: suggestioni cinematografiche, viaggi reali ed immaginari, per un caleidoscopio di suoni e una fotografia dai chiaroscuri espressivi, come un quadro di Caravaggio. L’autenticità della penna richiama il desiderio narrativo di chi vive la musica come connubio di professione e passione. Ne abbiamo parlato con AmbraMarie che ci ha accompagnato e guidato in quella che speriamo sia solo la prima tappa di un lungo itinerario.

Considerando la contemporaneità sempre incline a dare una definizione a tutto, mi ha colpito il nome del progetto, “John Qualcosa”, che procede in direzione opposta. Che mondo racchiude il vostro “qualcosa”?
Il nome è spuntato fuori prima che nascesse il duo. Io e Raffaele avevamo l’idea di un progetto malinconico acustico che avrebbe dovuto prevedere chitarra, pianoforte e voce. Nel tempo, ci siamo fatti prendere un po’ la mano. Non avevamo ancora scritto nulla. Un pomeriggio, mentre eravamo sul furgone –suoniamo insieme da circa sedici anni, quasi diciassette…ho perso il conto– mi ha chiesto: “Che cosa stavi ascoltando prima che mi è venuto il latte alle ginocchia?”. Sì, ho sempre questi ascolti molto cupi. Ho risposto: “Davvero non ricordo… Mi sembra John… John qualcosa”. Ci siamo subito guardati: “Ah, bello come nome per il duo!”. È andata così. La sera stessa abbiamo scritto il primo pezzo, “Questioni irrisolte”, contenuto nel disco. Si parla del 2011.

Il 15 aprile è stato pubblicato il vostro disco d’esordio, “Sopravvivere agli amanti”. Immagino abbiate analizzato tutti gli aspetti distopici dell’uscita in questo periodo di emergenza. Ci sono state anche delle sfumature costruttive che non vi aspettavate?
Il disco era pronto già da un anno a livello di mixaggio. Poi sono subentrate mille storie, mille ostacoli che hanno causato la posticipazione dell’uscita. Mai ci saremmo immaginati di uscire in un contesto così apocalittico. Abbiamo atteso nove anni… Direi che il tempismo è stato pazzesco. Ovviamente ironizzo, con tutto il rispetto e la sensibilità da adottare nei confronti dell’argomento. Poi ecco, io sono anche una persona molto ansiosa e perfezionista. Quando ho realizzato la situazione generale e, soprattutto, l’impossibilità di fermare la macchina, sono caduta un po’ nello sconforto: ho trascorso le prime settimane in silenzio, invece di comunicare online o pensare a promozioni varie. Non ce la facevo. Dovevo anche attutire il colpo di quello che stava accadendo in ambito familiare e contestuale, vivendo tra Brescia e Bergamo. Inoltre, immaginavo che le persone, immerse in questa bolla, non sentissero la necessità di leggere o di approfondire le vicende del mio disco. In seguito, però, ha prevalso uno spirito di adattamento: “Va bene, devo prendere atto della realtà”. E anche Raffaele, che è molto più pragmatico di me, mi ha aiutato a riflettere sul fatto che questo periodo avesse favorito un ascolto più attento, in linea con un disco come il nostro. In effetti, è andata così. E non è un caso, forse, che molti artisti abbiano deciso di pubblicare nuovo materiale sulle piattaforme streaming proprio in questi giorni. Non sempre in modo del tutto disinteressato –lo tengo a precisare perché non mi piace quel tipo di “marketing musicale confezionato”– ma sta andando così.

Durante l’ascolto, canzone dopo canzone, si ha l’impressione di procedere tra i capitoli di una storia raccontata per episodi, tappe di un viaggio. In che misura il disco è figlio del mondo?
È un aspetto che è arrivato a molti e che, in un primo momento, non avevo realizzato. Quello del viaggio, appunto. Il desiderio di viaggiare, di vedere, di conoscere è una sfaccettatura talmente insita in me che ha contaminato anche il disco. Tra me e Raffa, la viaggiatrice sono io. Lui viaggia molto con la testa e ha l’incredibile capacità di tradurre i miei racconti in testi e canzoni, come se li avessi scritti io. Tra noi, sinergia e fusione sono fortissime, perché il nostro rapporto lo è. Amo conservare i suoni di un viaggio, oltre ai sapori, profumi e colori. “La mia Amsterdam” parla di un viaggio che abbiamo fatto. “Sopravvivere agli amanti” si ispira al film e alla colonna sonora di “Solo gli amanti sopravvivono” di Jim Jarmusch: la pellicola è ambientata a Tangeri, dove sono andata proprio perché mi sono innamorata del film e volevo visitare la città dove era stato girato. Dopo di che, da ogni viaggio, porto sempre a casa qualcosa di “musicale” – da Lisbona il fado, ad esempio – che, inconsciamente, si convoglia in ciò che sto scrivendo.

È di grande impatto anche la resa iconografica dei testi che evocano immagini, contorni, colori come se fossero delle istantanee. A tal proposito, ho letto che sei una grande appassionata di fotografia e montaggio video. “Sopravvivere agli amanti” è stata anche un’esperienza artistica a 360 gradi?
Quando sono nati i John Qualcosa, l’iter che seguivamo prevedeva la pubblicazione di una canzone all’anno su Youtube, senza alcuna pretesa. Il videoclip era creato da me perché ho sempre amato fare foto e video. Non ho mai studiato dal punto di vista tecnico e questa passione è esplosa da autodidatta. Molte delle canzoni del disco, dunque, sono già presenti su YouTube in versione demo, da un po’ di anni. Il video di “Sfacelo azzurro” è stato girato e montato proprio da me: mi sono ritrovata a Montauk, sulla spiaggia del film “Eternal Sunshine of the Spotless Mind” di Michel Gondry, a cui mi sono ispirata per la canzone. Ho cercato la spiaggia per “vivere” il luogo delle riprese di uno dei miei film preferiti. Perciò sì, spesso e volentieri, associo il mio amore per la regia alle canzoni dei John Qualcosa. È anche funzionale alla nostra natura di artisti indipendenti e autoprodotti. Eccezion fatta per il video di “Sopravvivere agli amanti” che è stato affidato ad un regista professionista in qualità di primo lancio della band… e, diciamolo, la differenza si vede!

Nella traccia numero sette canti: “Ti avevo chiesto una canzone stupida di quelle che la gente ascolta per stare bene”. Ecco, come vivi la musica nel quotidiano? E che ruolo potrebbe avere la musica in un momento come questo?
Forse non riesco a definire il ruolo che la musica ha per me. È talmente insita nella mia vita da essere ormai viscerale. I miei genitori mi raccontano che ho cantato per la prima volta a quattro anni. Diciamo che non ho nemmeno memoria reale del principio. Vivo la musica come se fosse un’estensione corporea, quasi tangibile. Crescendo, gli ascolti cambiano e maturano, come è giusto che sia. A quindici anni ero più orientata sul rock ‘n’ roll. A vent’anni, dai Radiohead è arrivato un bello schiaffo emotivo e ho capito a quale mood appartenesse il mio cuore. Sono legata a tutta quella vena rock malinconica dove mi rifugio tuttora. Non so spiegarti perché, in maniera così naturale, la mia malinconia trovi rifugio nella malinconia. È un richiamo d’amore spontaneo. Lo stesso avviene per alcune sonorità che rimandano al tango argentino, a quelle melodie molto passionali. Oppure penso a tutti i vinili che mi ha regalato mia madre, da Umberto Bindi a Jimmy Fontana, che riportano all’Italia antica. Ho un amore estetico per le cose antiche, per ciò che arriva dal passato. Per quanto riguarda il presente, invece, la musica può fare tanto… nonostante, ancora, molta gente non si renda conto che la musica sia un lavoro. Non va lasciata come l’ultima ruota del carro, pur rendendoci conto benissimo che l’emergenza sia un’altra. Non si tratta soltanto degli artisti ma di tutto il gigantesco motore che non si vede sul palco. In molti, purtroppo, hanno risposto agli appelli degli artisti: “Non rompere le palle, pensate a cantare”. Ecco, io vorrei a mia volta ribattere: “Provate a pensare ad una quarantena senza musica, senza film, senza libri, senz’arte, in generale. Poi ne riparliamo”. Si dovrebbe togliere la musica da qualsiasi cosa, per qualche mese, come esperimento sociale. Forse solo allora si riuscirà a comprenderne il suo infinito valore, non dando tutto per gratuito e scontato.

Il disco termina con “Una canzone dei Doors” sulla cui scia si inserisce una sorpresa: la ghosttrack. Un momento intimo e prezioso. Da che cosa è nata questa scelta?
Ho sempre amato follemente le ghost track. Lo trovo un regalo per l’ascoltatore attento. Se un disco è stato macinato e consumato, si accede a questo livello successivo. Negli altri miei due lavori in studio, quelli del progetto AmbraMarie, avevo incluso come ghost track le mie canzoni preferite! Nell’album dei John Qualcosa, la traccia nascosta racchiude un nostro momento privato di risate post registrazione. “Guarda che lo metto nel disco” – gli avevo detto. E così è successo! Io e Raffa, oltre all’indole leopardiana, abbiamo anche quella da giullari di corte, molto giocosa. È la stessa dualità presente nei brani che permette di sopperire ad una sensibilità iper spiccata.

Per l’ultima domanda mi ricollego al titolo dell’album. Benché sia formulato come affermazione, nel testo della titletrack si dice, prima, “Non sai sopravvivere agli amanti”, e, subito dopo, “Non puoi sopravvivere agli amanti”. Dunque, la condizione di sopravvivenza può trasformarsi in convivenza?
La canzone si ispira al film e calzava a pennello la formula “non puoi sopravvivere, non sai sopravvivere”, soprattutto metricamente. In realtà il significato cinematografico è l’opposto. Sono solo gli amanti a sopravvivere, inteso come persone che amano. Il regista Jim Jarmusch fa vedere come sarebbero i protagonisti, i due vampiri Adam e Eve, se fossero persone “normali” e non eterne. Sarebbero colti e inclini ad ogni sfumatura dell’arte. Il significato risiede proprio qui: solo gli esseri che si affidano all’arte riescono a sopravvivere, altrimenti il mondo sarebbe popolato da zombie. Gli zombie sono gli umani che non si rendono conto di ciò che li circonda. Il nostro tributo a questo film rimanda a questa estetica e a questa poetica. Poi, il mio vissuto personale con Raffaele ha arricchito il senso complessivo: ci conosciamo da diciassette anni, siamo stati insieme per dodici ed ora ci esprimiamo nella nostra formula eterna, che è la musica. Quindi, anche noi, siamo dei sopravvissuti. Il nostro rapporto può essere difficile da comprendere talvolta, ma per noi è una vittoria. Riuscire a convivere con tutto ciò che comporta la fine di una storia e trasformarlo in qualcosa di bellissimo: il nostro legame, ciò che siamo insieme e questo nuovo disco.

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