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Il vecchio rock e il mare di nostalgia, il lento declino di un re
Come un anziano signore che ha vissuto i migliori anni della sua vita, il rock vive ormai solo di ricordi, danzando sulle vecchie conquiste con le ali della nostalgia. Rivoluzione, lotta di classe, libertà, rabbia, affermazione, sono meccansimi potenti che fanno nascere forme di comunicazione artistica. Il rock è stato per generazioni la diretta conseguenza di questi sentimenti umani. Di loro si è cibato per prosperare ergendosi al tempo stesso a canale di diffusione privilegiato. Così da tempi immemorabili chi crea musica può esorcizzare i propri demoni personali dando a folle sconfinate il medesimo strumento di rivalsa, curativo e rivoluzionario.
Ora il sacro fuoco della creazione del rock pare essersi inceppato, accasciato su se stesso. La musica del diavolo riesce più solo a guardarsi i piedi, senza più volgere lo sguardo al futuro. Il motore principale della musica sembra diventato il ricordo nostalgico di quello che è stato, senza più offrire eroi nuovi per una generazione di giovani ancora attratti dal fascino sovversivo del genere, ma che devono volgere la loro passione a ritroso in una visita guidata nella storia passata. Come in un negozio di souveniers che trovi nelle grandi città turistiche che ti danno quella brutta sensazione di artefatto, di poco vissuto. un’etichetta contraffatta che nasconde un prodotto minore, a buon mercato. Che ti fa sentire ospite e non a casa.
Se il pop sforna nuovi idoli senza sosta, il rock fatica ad aggiornarsi sia nella sostanza che nell’estetica. La situazione mondiale fa schifo? I totalitarismi cominciano a fare capolino di nuovo nel panorama contemporaneo? Dobbiamo richiamare alle armi i Rage Against The Machine. Lo spirito del metal è tramandato stoicamente da Dave Mustaine e i suoi Megadeth, ancora in piedi nonostante abbia avuto di recente botte non di poco conto alla salute. James Hetfield ha interrotto un tour per chiudersi in clinica a disintossicarsi per poter garantire la sopravvivenza dell’azienda mastodontica a nome Metallica, Rob Halford timbra il cartellino dei palchi con i Judas Priest, Ozzy danza con la morte da anni e rimanda un tour ad oltranza a causa delle sue precarie condizioni di salute. Lo spirito originario del rock o perlomeno una copia quanto più verosimile la troviamo ancora nei grandi concerti dei Guns ‘n Roses e degli AC/DC. Muse, Coldplay, Pearl Jam e Foo Fighters sono la cosa più fresca che il panorama possa offrire, e sono tutti gruppi che hanno festeggiato almeno venticinque anni di attività. L’usato garantito è quindi l’unica certezza, con i loro curriculum lunghissimi e clamorosi, ma con una spinta motivazionale che per quanto stimabile non può essere quella di un gruppo non ancora affermato, non ancora inondato di dollari, non ancora immerso fino alla punta dei capelli nel grande sistema dell’industria musicale.
Ci sono ovviamente decine e decine di buonissimi gruppi di ragazzi pieni di talento, ma guardate i cartelloni dei grossi festival degli ultimi anni. Gli headliner sono glorie con tantissimi chilometri sul groppone. I vari Fever 333, i Greta Van Fleet, Nothing But Thieves, Frank Carter and The Rattlesnakes, i Nothing More, sono tutti buonissimi gruppi che offrono degli spettacoli live mozzafiato. Ma che sia colpa del sistema musica, dell’industria che c’è dietro e delle conseguenze a cui ci ha portato, lo streaming e lo smantellamento dell’istituzione del formato album, gli ascolti brevi ed estemporanei, tutte queste motivazioni fanno si che i gruppi nuovi non hanno appeal sufficiente a reggere un grande evento. Non hanno le spalle abbastanza larghe per muovere ideologie, veicolare tematiche universali, per salvare vite come fanno i grandi del passato. Anche i palinsesti delle radio rock puntano nella quasi totalità dell’offerta sui vecchi cavalli di battaglia, perchè su quelli nuovi la gente ci passa sopra senza mai soffermarsi, e non solo per demeriti degli artisti. E’ colpa di tutti, di chi sta dietro all’industria, di chi ascolta, di chi produce.
Questo periodo di stop forzato del baraccone dei live sta evidenziando ancora di più questo problema. La musica nuova non basta. Gli artisti rimandano pubblicazioni di album in attesa che ripartano i tour, che i grandi miti viventi rimasti attirino oceani di folla e che diano così la possibilità anche ai gruppi nuovi di farsi vedere e di vivere di luce riflessa. Ma cosa succederà quando Ozzy mollerà? L’uscita di scena di Ronnie James Dio, Bowie, Lemmy, Tom Petty, tutte le perdite di quella generazione sono un chiodo appuntato alla bara del rock. Si deve sperare che Mick Jagger continui a saltellare in eterno sui palchi, con Angus Young, Brian May, Elton John, Paul McCartney e tutti quei totem che fanno comprare biglietti e magliette e per ultimo, gli album.
So cosa state pensando, che in tutto questo scenario la cosa che dovrebbe essere la preoccupazione principale, la musica, è invece relegata a sottofondo. Viviamo l’era in cui apparire conta molto di più dell’essere, l’era in cui trovi le magliette dei Ramones nei grandi centri commerciali di fianco alle marche più popolari. E’ uno strano compromesso quello dello spirito del rock e dell’esigenza di espandersi, di prosperare. Una volta un grande evento richiamava le folle e diffondeva il verbo, come lo è stato Woodstock. Quando c’era da rompere la ritrosia della generazione passata, il rock ha usato le radio indipendenti. I vinili nascosti sotto il letto dai genitori, vinili che giravano e dalla testina facevano uscire messaggi di anticonformismo, di libertà dalle briglie del sistema. Oggi pare invece che il rock non possa vivere senza quel sistema, con tutte le aberrazioni del caso, con tutte le contraddizioni, l’ipocrisia, la falsità che questo comporta. Una lenta agonia del rock che vive ormai in vetrina dentro un museo, impacchettato e venduto. Il suo spirito però muove ancora qualcosa. L’ultima vera rivoluzione musicale è stata ormai trent’anni fa, veniva da un posto chiamato Seattle e ha fatto tremare le fondamenta del pensiero standardizzato. Ma come è andata a finire poi? Un sacco di sofferenza, di morti, e l’industria che ha imbrigliato quella forza sovversiva e l’ha venduta al miglior offerente come tutto il resto. Il processo è cominciato tanti anni fa, e questo fa pensare. Prima di tutto, che il rock ha la pellaccia dura. Non è facile esaurire la sua forza primordiale, e potrebbe esplodere ancora da un momento all’altro, in qualche posto sperduto del mondo. Per rinascere. Magari in qualche cantina vicino, in qualche sala prove della vostra città. Magari il prossimo Kurt Cobain sta leggendo queste parole, o sta ascoltando un disco di Iggy Pop. Magari ha appena deciso di dire la sua, di imbracciare una chitarra, un microfono, una batteria e un basso, e inconsapevolmente cambiare ancora una volta il mondo. Nonostante tutto, è sempre la musica il fulcro di tutto. Se una melodia, un testo, un riff di chitarra o una voce ci smuoverà qualcosa dentro, ci emozionerà, non importa che questa sia vecchia o nuova. Dobbiamo ripartire dalla musica, e aggiustare quello che ci sta intorno. C’è tanto lavoro da fare, un mondo intero da migliorare. Ma almeno avremo la musica.