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Peter Green, The Green God ci ha lasciati nel silenzio della notte

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Peter Green si è spento nel sonno, in silenzio, come tanti lunghi periodi della sua difficile esistenza. Era un po’ di tempo che non lo ascoltavo e appena appresa la notizia ho avuto il bisogno fisico di infilarmi nelle orecchie “The end of the game”, un brano del 1970, dell’omonimo album, che trascina la schizofrenia di Green nella musica e chi ascolta non può non percepire il disagio della sua anima.

Impossibile parlare del co fondatore dei Fleetwood Mc senza che la sua vita privata e la sua malattia mentale non entrino prepotentemente nel racconto.

Green, all’anagrafe Peter Allen Greenbaum, dopo essere stato bassista in una piccola band londinese, si ritrova al cospetto di John Mayall quando Eric Clapton decide di sparire per qualche giorno, ma tanto basta per rimanere nella mente del cantante e fondatore dei Bluesbreakers, che nel momento della scissione con Clapton chiama proprio Green a sostituire colui che aveva l’appellativo di Dio. Non ci mise molto ad essere osannato anche lui con il soprannome di “The Green God” .

Dopo l’uscita di “ A Hard Road”, la sensazione di prigionia  data dallo schema esistente lo porta a prendere un’altra strada nella quale il blues sarebbe stato il principale protagonista, ma non senza contaminazioni, della sua incredibile creatività. Il suo amico Mick Fleetwood già suo compagno negli Shotgun Express, è entusiasta della proposta, i due contattano John McVie e vanno in sala di registrazione per un primo demo di cover ma soprattutto per l’inedita “Black Magic Woman”.
Il resto è storia che si intreccia con l’interminabile discografia dei Fleetwood Mc nei quali rimane fino al 1970 anche se durante gli anni successivi ci saranno delle piccole collaborazioni.

Diversa è la storia di Peter Green che prende la via del malessere e della distorsione della realtà.
Si narra che fosse incapace di gestire il successo che gli era piombato addosso e per questo avesse iniziato a fare uso di LSD, ma se teniamo conto del periodo sappiamo come l’uso degli acidi fosse ricercato. Chi si nascondeva dietro l’esigenza creativa, chi dietro le visioni che aprivano la mente e quindi la vena compositiva. Esisteva la strana convinzione che si dovesse elogiare la follia.
Si può smentire che in quel momento storico ci fosse un incredibile flusso creativo?
No, ma non può giustificarne l’uso spasmodico fatto in quegli anni e non può anche smentire che su alcuni di loro, probabilmente già con un equilibrio fragilissimo, le conseguenze furono laceranti. Peter Green fu devastato e nonostante fino alla sua morte abbia imbracciato la chitarra, la schizofrenia gli impedì di diventare grande come si sarebbe meritato.
Ci sono racconti, episodi della sua vita che rendono perfettamente l’idea di come l’LSD e la schizofrenia lo abbiano schiacciato e buttato fuori dal mondo reale, di come sia entrato e uscito dagli ospedali psichiatrici, di estenuanti session durate ore o di come l’aver guadagnato tanti soldi con la musica gli abbia fatto incarnare il denaro con il male assoluto. Di come nel 1971, nel bel mezzo di un tour, si sia disfatto di tutte le sue chitarre, compresa una Les Paul del ’59 per sole 100 sterline e che finì nelle mani di un diciannovenne di nome Gary Moore (per i curiosi: la chitarra ora è di proprietà di Kirk Hammett).

B.B.King disse di lui che aveva il tono di chitarra più dolce che avesse mai sentito.
Metto la cuffia e mi immergo in “A Fool No More” e penso che troppe poche persone la conoscono e questo mi rende ancora più triste della morte di un chitarrista impagabile.

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