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The Heavy Countdown #128: Glass Ocean, Incantation, Kill the Lights

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Glass Ocean – The Remnants of Losing Yourself in Someone Else
Non finirò mai di ripetere quanto l’Australia sia un terreno fertile per molte band (soprattutto appartenenti a determinate correnti). Il debutto ufficiale dei Glass Ocean arriva dopo un paio di EP e lascia immediatamente intendere quanto potenziale abbia questa formazione prog rock. Il timbro baritonale di Tobias Atkins, unita alle atmosfere evocative e spesso e volentieri ottantiane (“Burn”), tenute insieme da un mood per lo più uptempo (“Divide”), fanno di “The Remnants of Losing Yourself in Someone Else” un disco molto più leggero di quanto gli stessi Glass Ocean ci vogliano far credere. E va benissimo così.

Point North – Brand New Vision
Biebercore, ma non solo, nell’esordio dei Point North. “Brand New Vision” è infatti un mash up continuo e costante di generi (dal già citato supermelodico metalcore/post-hardcore, passando per pop punk, R’n’B, hip-hop, spesso e volentieri anche all’interno di singoli pezzi, come la title track). Una delle maggiori influenze di questi ragazzi sono sicuramente gli Sleeping With Sirens (il cui frontman fa pure la sua comparsata in “Into the Dark”) ma anche in gran misura i Too Close Too Touch. Il problema è che l’effetto minestrone inizia a farsi sentire da “Apologue” in giù, ma diamo tempo ai Point North di crescere e trovare il proprio equilibrio in mezzo a così tanta carne al fuoco.

Incantation – Sect of Vile Divinities
So bene che dire che la cattiveria è di casa per gli Incantation è una banalità, ma è anche il vero fulcro attorno al quale ruota tutta la proposta e il nome della band death metal, una ricetta collaudatissima che non aggiungerà nulla con l’ultimo lavoro “Sect of Vile Divinities”, ma che neanche toglierà niente alla discografia dei Nostri e alle orecchie dei loro fan, soprattutto al traguardo del dodicesimo full-length in carriera. Quindi death metal dritto e malvagio sì (“Chant of Formless Dead” e “Siege Hive” per esempio), ma con qualche tocco doom ben assestato (“Entrails of the Hag Queen” e “Shadow-blade Masters of Tempest”).

The Fall of Troy – Mukiltearth
I The Fall of Troy ci hanno abituati da sempre a lunghi periodi a bocca asciutta, quindi “appena” quattro anni dal precedente “OK” sono una bazzecola rispetto al solito. Il problema però è che “Mulkitearth”, pur presentando brani inediti, rimesta troppo nella nostalgia lasciandoci con l’acquolina per un futuro non meglio definito. Infatti due terzi buoni di quest’ultima fatica del trio di Washington sono ri-registrazioni di demo vecchissime, risalenti ancora al periodo in cui si facevano chiamare The Thirty Years War, e in cui dovevano ancora dire la loro in un mondo post-hardcore/math rock nel quale molte pagine dovevano essere ancora scritte. Il materiale più recente consiste solo negli ultimi quattro pezzi, composti tra il 2016 e il 2019, con un salto di 15 anni dalla prima parte del disco che, pur dovendosi sentire, e parecchio, non si sente per nulla. Ma il singolo “Chain Wallet, Nike Shoes” vale la pena di un ascolto.

Kill The Lights – The Sinner
Pensate a “The Sinner” come a una sorta di piccola macchina del tempo, in grado di catapultarci indietro negli anni (quasi decenni) quando andava di moda un certo tipo di metalcore. Non per niente, il deus ex machina dietro alla nascita dei Kill the Lights è l’ex batterista dei Bullet For My Valentine. Moose e soci giocano parecchio sull’effetto nostalgia con canzoni a presa rapidissima (vedi “The Faceless” o “Plague”), ma si perdono in un album troppo lungo e troppo carico di power ballad poco incisive tranne “Through the Night”. Rimandati a settembre.

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