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Sono passati 25 anni dall’uscita de La fabbrica di plastica

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Oggi fanno sorridere gli osanna tributati ai Måneskin per aver “sdoganato il rock sul palco di Sanremo”, classica operazione che ogni tot la fabbrica di plastica del music business nazionale mette in azione quando sono finiti tutti gli altri motivi d’interesse (basti pensare che nel Belpaese da cinque anni sembrava esistessero solo rap e trap).

Rock e Italia sono due termini che mai sono andati d’accordo, specie quando si trattava di mettere in mezzo il grande pubblico e relativa diffusione di determinate sonorità presso lo stesso. L’ultimo vero momento Rock che il biz italiano ricordi – in ogni senso, artistico e personale – è datato 1996, precisamente a maggio, quando Gianluca Grignani pubblicò “La fabbrica di plastica“, suo secondo album.

Ora non c’è bisogno di tirare in ballo discorsi vecchi, tipo “eh ma allora parliamo della scena italiana progressive rock” oppure “ah be ma i capi furono i Litfiba, i CCCP, i Diaframma“. Parlare dei 25 anni de “La fabbrica di plastica” è un obbligo morale specialmente nel 2021, provando a spiegare come suonare Rock e l’essere Rock non possano mai essere questioni stereotipate, universalizzate per le masse, vendute nel miglior involucro possibile, situazioni controllabili, gestibili, pianificabili. Grignani arrivava da un successo clamoroso, ottenuto un anno prima con “Destinazione Paradiso” e poco più di 365 giorni dopo, mandò davvero tutti al diavolo pubblicando un disco impensabile per le dinamiche che da sempre caratterizzano le modalità per avere successo in Italia facendo musica.

L’eredità

Italia e rock non hanno mai legato dicevamo.
Se USA e UK hanno avuto gli uni Elvis, Jimi Hendrix e gli altri Led Zeppelin, Rolling Stones, Beatles e Deep Purple (sono 6 nomi ma potremmo scriverne 60) e noi siamo conosciuti universalmente per la lirica e, a esagerare, per il carrozzone sanremese, un motivo ci sarà.

Certo anche qui ci sono stati grandi artisti: Tenco, Celentano, Morandi, Mina ma anche Battisti, De André, Battiato, Bennato e molti altri. Ma il tutto è sempre stato circoscritto nella maniera più sicura possibile sotto un certo livello di rumorosità. L’era d’oro del prog rock italiano dei Settanta non è mai stata celebrata a dovere dai media, anche per evitare che si generassero eredità complicate da gestire. In Italia nei ’70 oltretutto, i concerti rock erano più noti per le problematiche – chiamiamole così – legate alle irruzioni delle forze dell’ordine nei luoghi dove si suonava.

La canzonetta ha sempre avuto la meglio e anche nei giorni nostri, il rock è sempre stato qualcosa da tirar fuori quando proprio non c’era più nulla di cui parlare. Da qui il riferimento iniziale a Sanremo, benché non abbia proprio nulla contro i Måneskin che per lo meno scrivono da soli e suonano convinti i loro pezzi. Questo è semmai un altro discorso da approfondire altrove.

Lo scenario

Negli anni Novanta intendiamoci tra Litfiba, Timoria, Ligabue, Negrita, la crescita del movimento indie con Afterhours e Marlene Kuntz (avvenuta dalla seconda metà del decennio presso un pubblico sempre maggiore) e Vasco dominatore di charts e stadi, non è che ce la si passasse così male nell’universo Rock nazionale. Anzi.
Ma le vendite che fece registrare il debutto di Gianluca Grignani nel 1995 furono qualcosa di esagerato. “Destinazione Paradiso” fece fuori più di due milioni di copie a tempo di record. Lui era l’idolo delle giovanissime, aveva l’immagine perfetta, la voce perfetta, era perfetto per il business.
Poi, di botto, Grignani sparì. In giro si diceva pure che fosse morto di overdose.

Un anno dopo, per la precisione un anno e tre mesi dopo, Grignani pubblicò “La fabbrica di plastica”. Una colossale dichiarazione d’indipendenza artistica: Gianluca fece esattamente ciò che voleva fare*, ovvero portare su un disco di musica italiana influenze psichedeliche, echi di Radiohead, grunge, suoni acidi, distorti, acustici e allucinati. Lo spettro vocale che viene utilizzato nelle 10 (anzi, 11 ghost track inclusa), è variopinto, schizofrenico, a sottolineare una creatività debordante, oltre a una personalità e una voglia di lasciare il segno con pochi precedenti.

*”Non sono cambiato, sono solo cresciuto, ho soltanto avuto, questa volta, l’occasione di fare esattamente quello che volevo. Il primo disco era stato realizzato in fretta, questa volta ho avuto il tempo di produrre tutto da solo, e di sottolineare le cose che avevo da dire non solo con le parole o con la melodia, ma anche e soprattutto con la musica”.

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*”In quegli anni trovavo molte difficoltà a fare un certo tipo di musica in Italia. Determinati risultati si potevano ottenere solo a Los Angeles, ad Abbey Road Studios a Londra. La fabbrica di plastica era molto attuale, ma per l’estero”.

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Il coraggio

A costo di scomodare quella che, a conti fatti, è da sempre l’unica vera rockstar italiana (Vasco Rossi, per chi non lo avesse capito), la scelta di Grignani si avvicina moltissimo al coraggio avuto dal Blasco nel portare avanti per oltre un decennio (tra fine ’70 e tutti gli ’80) un discorso artistico di rottura mai visto prima di lui nella storia della musica italiana. Grignani non durerà così a lungo, si regalerà un altro disco molto interessante (“Campi di Popcorn” un paio d’anni dopo) per poi inevitabilmente tornare nei canoni del pop nazionale.

“La fabbrica di plastica” venne arrangiato da Grignani insieme a Greg Walsh, registrato e mixato tra l’Angelo Studio di Garlasco e l’Abbey Road Studios. La band che accompagnava Gianluca vedeva tra le proprie fila anche ottimi turnisti come Mario Riso alla batteria, Franco Cristaldi al basso, Massimo Varini alle chitarre elettriche. Grignani suonò anche le chitarre acustiche e a 12 corde, per una line-up con un concentrato di talento esecutivo di altissimo livello.

L’album

Nell’era in cui l’ascolto è disponibile a tutti è inutile descrivere minuziosamente le tracce dell’album. Si sappia che i primi tre brani ovvero titletrack, “Più famoso di Gesù”, “Solo Cielo” (sentite il basso qui sopra ragazzi), quindi “L’allucinazione”, “La vetrina del negozio di giocattoli”, “Galassia di melassa”, “Qualcosa nell’atmosfera” (la ghost track che parte a 11 minuti e 22 dopo “Il mio peggior nemico” – notevole anche questa) sono canzoni eccezionali, completamente fuori dagli schemi precostituiti e destinate a sconvolgere chi non conosca questo lato di Gianluca Grignani.
Uno dei migliori artisti italiani degli ultimi 30 anni che merita sicuramente una rivalutazione e celebrazione adeguata, visto che paradossalmente il “mancato” successo commerciale di massa de “La fabbrica di plastica” (parliamo comunque di oltre 150mila copie vendute, un risultato per cui il 90% degli artisti mondiali odierni sarebbe disposto a uccidere per ottenere), aprì inconsapevolmente la strada a una sensibilità maggiore a chi ascoltava, come si diceva inizialmente, indie rock italiano di quegli anni.

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