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Interviste

Fast Animals and Slow Kids, usciti con la prima effettiva collaborazione in 5 dischi e 10 anni di carriera: Willie Peyote è il prescelto

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I Fast Animals and Slow Kids sono usciti con la prima effettiva collaborazione in 5 dischi e 10 anni di carriera: Willie Peyote è il prescelto, che ha realizzato alcune barre per il singolo Cosa ci direbbe. Cosa ci direbbe mamma? E noi che diritto abbiamo di giudicare chi ci passa davanti secondo il nostro metro, senza accorgerci (o senza volerci accorgere) di essere anche peggio?

Come è nato questo pezzo, e la collaborazione con Willie Peyote?

Aimone Romizi: In realtà è stato tutto mega tranquillo. Willie è un amico, ci sentiamo a prescindere e ci siamo conosciuti in modalità non sospette sui palchi, in occasione del Primo Maggio 2018 quando abbiamo fatto una cover band degli Skiantos…una storia incredibile, comunque. Da li siamo rimasti amici e avevamo questo pezzo che ci girava da un po’, un pezzo che ci piaceva molto ma a cui ci rendevamo conto mancasse qualcosa che definisse l’aspetto del pezzo stesso. La problematica molto spesso è che siamo onirici, facciamo ‘sti testi, ‘sta roba astratta con cui non riusciamo mai ad essere concreti, e allora c’era bisogno di qualcuno che ci desse una mano nel rendere chiaro il concetto. Willie in questo è un maestrone, lui in due barre ti spiega le robe: prima ci siamo confrontati, ci siamo chiamati e gli abbiamo detto “Guarda Willie, questo è il pezzo, senti se ti piace” e lui “Si è figo, mi piace” “Ok, cosa ci faresti?

Da li in poi è iniziata una chiacchierata prima sulla tematica del testo, perché ovviamente volevamo essere in sinergia sul tema che sarebbe nato, e dall’altra parte completa libertà compositiva per cui lui ha preso e si è inserito dove voleva mentre noi abbiamo tolto delle parti, aggiunto delle parti…veramente, una collaborazione nel senso più nobile dei termine. Degli amici che si mettono insieme e fanno qualcosa che piace a tutti al 100% quindi davvero, mega tranquillo…e poi ovviamente è andata a distanza la cosa, fino a questo momento c’eravamo visti solo tramite schermo, ma tutto è stato preciso e puntuale: noi siamo andati a registrare nel nostro studio, lui nel suo studio. C’è un approccio che ci lega, anche come persone, ed è l’approccio molto serio alla produzione musicale, all’attenzione ai suoni e all’aspetto più professionale della musica.

Avete fatto una collaborazione con i Subsonica, ma in quel caso siete stati voi ad andare a casa loro, mentre in questo caso avete invitato Willie Peyote a casa vostra: cos’è cambiato?

AR: Questo è il primo nostro vero feat se lo andiamo ad analizzare sotto questo punto di vista, nel senso che dall’altra parte era più una collaborazione…a parte che era solo la mia voce all’interno del pezzo, quindi non c’era il discorso band che entra nel progetto: è stata più una comparsata quella che abbiamo fatto con i Subsonica, della quale siamo mega orgogliosi. Con Willie invece c’è stata proprio una scrittura insieme, nel senso che abbiamo lavorato insieme. Non è riprendere un pezzo storico e farlo ricantare in un altro modo, qui abbiamo fatto un pezzo nuovo. E infatti siamo andati su Willie appunto perché spaventati dal concetto di feat, noi siamo una band che si è sempre chiusa particolarmente a riccio in sé stessa, gli ultimi tre dischi li abbiamo registrati in una casa davanti al lago di Montepulciano da soli con uno che cucinava e l’altro che registrava. Si, insomma, abbiamo dei problemi sicuramente.

Però insomma, proprio per evitare questa cosa e confrontarci con un amico siamo andati da Willie, che è una persona che ti mette a tuo agio, una persona con cui se sei amico instauri una dialettica profonda, e questo è straimportante se fai musica con tutto te stesso come succede a noi.

So che avete in cantiere un nuovo album e un nuovo tour: questo lungo periodo di restrizione ha influito in qualche modo sul vostro modo di concepire la musica e di concepire i live.

AR: Allora, intanto fermo la cosa perché adesso come adesso siamo nella situazione in cui abbiamo paura ad annunciare qualsiasi cosa: dire che abbiamo un album, nella situazione attuale, è come dire “ok, abbiamo un album!” e poi quest’album non uscirà mai, perché poi esplode il mondo!

Quindi cercheremo di….ovviamente stiamo producendo 100 milioni di canzoni, ne abbiamo 180 nel backstage, ma non siamo sicuri di niente: facciamo delle cose che sono realmente concrete, come questo singolo, perché non c’è niente di più deludente in questo periodo di spostare e riprogrammare: abbiamo fatto una vita così, non ne possiamo più. Il lavoro c’è, ci sono delle idee in cantiere e 100 milioni di provini, ma non c’è una data di uscita del disco, per esempio. Così come c’è l’idea di voler andare in tour e fare delle date, ma vogliamo anche capire la situazione: adesso si è parlato di riaperture, si è parlato di capienze, ma non si è andati nello specifico: non si è detto dove, come e in che modalità. Fino a quando non c’è una specifica del Comitato tecnico scientifico non sappiamo come fare dal punto di vista tecnico. Si lavora per, questo di sicuro.

Cosa sia cambiato col lockdown però…non so.

Alessio Mingoli: Di sicuro per la scrittura è cambiata la quantità di tempo che abbiamo a disposizione per scrivere, è per questo che abbiamo una marea di canzoni in cantiere: nella sfiga abbiamo avuto la fortuna di trovare una nuova modalità.

AR: E’ vero, perché da dopo il nostro primo disco non è mai successo che non fossimo in tour, quindi quello che scrivevamo lo scrivevamo dentro un albero, in una casa o prima dell’ospitata. C’è sempre qualcosa da fare quando sei nel mondo dell’arte, dell’entertainment, quindi da quel punto di vista ci siamo ritrovati per la prima volta come ai primordi: cosa abbiamo ggi? Al massimo una sala prove o un computer. Ci siamo mandati le robe, le abbiamo riragionate un sacco di volte, siamo andati nello specifico del singolo suonino che è una cosa che ovviamente facciamo ogni volta, ma questa volta potevamo cambiare idea per sempre.

AM: Addirittura durante il lockdown abbiamo pubblicato un pezzo registrato ognuno da casa sua, che è una cosa che non è mai successa. Ovviamente per motivi tecnici!

AR: E anche di approccio, perché a noi piace stare insieme. L’ambiente studio per noi è bello. Sicuramente è cambiato che c’è più tempo per pensare alla musica e riflettere su sé stessi e sui testi. Anche questo qua è un testo che parte dall’analisi di sé stessi, dal riflettere sulla gestione sbagliata della propria emotività. Il giudica, guardare verso l’esterno senza mai auto analizzarci: il lockdown ci ha permesso di guardarci dentro, di analizzarci molto, perché c’era più tempo per farlo banalmente.

Visto che il pezzo sembra un po’ più acustico rispetto agli alti brani che avete pubblicato: è questa la direzione del disco o è una cosa relativa solo a questo brano?

Non avendo chiaro il disco sinceramente non ti saprei dire…magari viene fuori una roba death metal! In termini di disco non saprei dirti ,di sicuro questo pezzo possiede un po’ di quelle influenze musicali che sono proprie della band in questo periodo: ci stiamo concentrando un po’ sulla roba inglese anni ‘80, dagli Smiths, prima di tutto, quindi ci sono queste chitarre pulite ma con arpeggi alla Johnny Marr. Ci sono un po’ di Cure, tanta roba che stiamo ascoltando in questo periodo che assorbiamo e riproponiamo alla nostra maniera ovviamente, perché resta un background di altra roba che si mischia.

Alessandro Guercini: Sicuramente è un pezzo che unisce questo nuovo modo di fare musica che abbiamo intrapreso da poco: c’è una chitarra acustica abbastanza preponderante per tutto il pezzo, però al contempo c’è la batteria del pezzo che è una batteria dritta, sempre improntata al movimento.

AR: C’è un po’ di drive in rock che mantiene, è un pezzo che te lo metti quando corri o in macchina quando stai guidando: questa roba qua ci piace, è un po’ quello che stiamo ascoltando. Ci sono anche cose americane, tipo i War on drugs, no? Noi ce lo immaginiamo un po’ così, poi ognuno ci trova quello che vuole, però questa batteria costante ci rimanda a quel mondo la, le chitarre ci rimandano agli Smiths…

AG: E in tutto questo c’è anche l’elemento veramente nuovo che è la parte di Willie, che insomma, fra tutte le influenze che abbiamo citato niente è quella roba li. E’ nuovo anche per noi e siamo molto soddisfatti anche di come è stata pensata: quella parte rap è nell’unico punto del pezzo in cui non c’è la batteria.

AR: La parte dove rappa Willie, quello che abbiamo scelto alla fine, è quella con gli shimmer dietro che creano questa ambientazione onirica e un po’ di chitarra. È strana no? È strano magari anche per un pezzo più rap, come quelli che scrive Willie. Questa cosa ci gasava, unire questi due mondi apparentemente distanti ma che secondo noi si fondono bene e fanno risaltare il pezzo. La parte di Willie è la parte centrale, è la parte in un certo senso di snodo perché fa capire lo step successivo: quando entra il ritornello subito dopo senti come una ripartenza, e ci sembrava, rispetto al lavoro iniziale, molto migliorato. Ed è questo l’importante, no? È un po’ come una coppia: due persone quando stanno insieme devono star meglio di quando sono da soli, sennò non funziona.

Quanto c’è di vostro dietro le parole? Com’è nato il testo e il pensiero che c’è dietro?
AR: C’è tanto di nostro. Il pensiero…non so, forse io lo ricollego un po’ al fatto che il lockdown ci ha portato ad auto analizzarci. All’inizio del lockdown la prima cosa che mi è venuta in mente è stato questo “io”. Io come sto? Mi sta succedendo questa cosa a me, io, io io. Si ok, lui sta male, ma l’arte? Ma io? Che succede a me, cantante de sto cazzo? E questa cosa qui, di fondo, è uscita fuori li perché c’era l’emergenza e ci sembrava quasi naturale perché ok, c’è l’emergenza. Però in realtà lo manteniamo sempre: come quando siamo al ristorante e guardiamo la coppia che sta li e non parla e allora pensiamo “ah, in quella coppia non esiste dialogo”, quando invece magari si stanno semplicemente godendo un meritato silenzio perché non c’è bisogno di parlare tutto il tempo, anzi magari è proprio il silenzio che definisce la bellezza di quella coppia. Non sappiamo un cazzo, eppure critichiamo e giudichiamo. “La donna con le gambe stanche che cammina da sola” è un giudizio, un nostro pensiero: non parlare di cose che non sai e cerca, più che altro, di analizzare quello che succede in casa tua. Quali sono i tuoi problemi, cosa stai vivendo, come lo stai vivendo e come tu puoi migliorare te stesso. Quindi forse questo è lo slancio principale del testo: smettere di cercare gli errori degli altri per non autoanalizzarti, perché è meglio guardare fuori dalla finestra che vedere la casa che brucia. Questo è il senso alla base del testo: cercare di entrare in risonanza con il mondo, perché ce c’è una cosa che ci ha insegnato tutto questo è che fa schifo essere soli, fa schifo stare lontani e non potersi tuffare nella socialità. Per poter rientrare migliorati è importante guardare ai proprio errori, ai propri percorsi reiterati. Dobbiamo provare a migliorarci.

Durante il lockdown c’è stato un uso spropositato della cultura fra musica, film e libri, da parte della gente chiusa in casa per non uscire di testa, fondamentalmente. Questo porterà finalmente a vedere il mestiere dell’artista come un vero mestiere, secondo voi, o resteremo sempre al livello di chi ti chiede “si, ma di lavoro vero che fai”?

AR: Mia mamma me lo chiede ancora. Non lo so. I cambiamenti nella percezione della realtà sono lenti, ere geologiche, durano anni. Lo vedremo fra 5, 10 anni. Per adesso sicuramente c’è più coscienza, ma soprattutto c’è più coscienza all’interno del compartimento musica: siamo più noi coscienti di quanto siamo dei granellini. Una cosa che è successa è essersi resi conto che in questo caso non sono gli operatori dello spettacolo ad essere al servizio degli artisti, ma gli artisti che sono al servizio degli operatori dello spettacolo perché senza di loro noi col cazzo che andiamo a risuonare tra due mesi, tre mesi o un anno. Questo è un passaggio che, all’interno delle persone che sono state più toccate dalla dinamica lockdown, è sicuramente successo. La percezione generale è un altro paio di maniche: certe volte non passa nemmeno il concetto della vaccinazione, ci stanno dei problemi a monte ancora più incazzati! Non sono di quelli più speranzosi ma sono sicuro che sia stato sicuramente utile, che sia stata una dialettica utile e una tematiche che se ripercorsa e riproposta nel corso dei prossimi anni porterà a dei risultati, come sempre accade quando una battaglia viene combattuta giornalmente mantenendo l’attenzione alta.

AM: Soprattutto se arrivasse una riforma del settore, una legittimazione anche a livello normativo.

AR: Si, che poi per andare nel tecnico è di questo che si tratta: si tratta di una regolamentazione. Non è chiaro il codice ATECO di base del musicista, in Italia. A prescindere da quello che è la risposta è che di sicuro si è avviato il processo di comunicazione e di stimolo anche son lo Stato e i suoi organismi, che prima non era mai successo perché il settore si teneva in piedi da solo. Adesso invece no, quindi spero che nel corso dei prossimi anni questa cosa accada, anche se sono convinto che sarà molto lunga e difficile come strada.

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