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Interviste

ANTEPRIMA ESCLUSIVA – Leonardo Angelucci presenta il video di Geografia

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L’intervista doppia all’artista e alla ballerina Vanessa Paparelli

Leonardo Angelucci torna con Manifesto Canzoni, il nuovo progetto che fonde passione e curiosità e le trasforma in musica: un disco indie pop che passa dagli anni ’80 agli anni ’90 con una base solida, il bisogno di muoversi e spostarsi, e anche di tornare a casa, dopo che la pandemia ha imposto a tutti la sua immobilità.
Prodotto allo Stra Studio di Roma da Giorgio Maria Condemi, registrato mixato e masterizzato da Gianni Istroni. L’originale artwork di copertina è di Giuseppe Bravo.

Il mini-disco è stato anticipato da due singoli, “Henné” e “Budapest”, e vanta il video di Geografia, cui prende parte anche la ballerina Vanessa Paparelli. Abbiamo intervistato entrambi.

Ci sono quattro brani, e sono quattro brani che sembrano un letterale giro del mondo. Come hai espresso, da un punto di vista artistico, questa differenza geografica?
L: C’è chi cerca costantemente un filo conduttore dichiarato tra i brani di un disco, come fossero tutti concept album, poi c’è chi sa vedere attraverso le cose, analizzare il substrato di un lavoro artistico e per casualità o per oggettività trova quel comun denominatore anche se non palesemente espresso. Indubbiamente la tematica del viaggio e della geografia, che combinata col tempo equivale al destino – come diceva Joseph Brodsky nel 1978 – impregnano le quattro canzoni dell’EP favorendo il percorso d’ascolto. Apparentemente le distanze sembrano incolmabili, ma la musica e le parole ci aiutano a tessere questa trama mentale che ben presto diventa una mappa, una guida nella giungla dei miei pensieri, una stella cometa nell’universo in espansione. Quindi non importano le differenze e i chilometri, piuttosto conta come si sceglie la propria bussola e come si leggono le carte. Quattro canzoni che sono anche quattro manifesti: cartacei, ruvidi, affissi al muro rovinato del tempo che passa, intrecciandosi con la geografia, per assegnarci un destino.
V: Per prima cosa, ci tengo vivamente a ringraziare Leonardo che mi ha dato fiducia, e soprattutto l’opportunità di fare ciò che amo: danzare. Sulle note di “Geografia” la mia mente ha fin da subito viaggiato, cercando di far unire con una semplice coreografia, due arti complementari, la danza e la musica. Dopo un periodo così buio finalmente noi artisti ritorniamo a respirare, a vivere di arte. È stato un periodo costruttivo allo stesso tempo, perché è proprio quando cadi che ci si rialza più forti di prima, che si acquisisce consapevolezza di ciò che si è e di ciò che vogliamo.

Continuiamo a viaggiare: Budapest non parla solo di partenza, ma anche di ritorno. Quanto ti ritrovi nella frase “torniamo a casa per vedere quanto sono cambiate le cose mentre eravamo via”, e secondo te speriamo che le cose siano cambiate perché in realtà restare sempre nello stesso posto, sempre uguale a sé stesso, ci fa sentire vagamente ingabbiati?
L: Budapest è una canzone circolare, ciclica. Come la vita e come il viaggio, fatto di partenze e ritorni. Non è solamente il mondo intorno a noi che cambia al nostro ritorno a casa, ma siamo noi ad essere cambiati la maggior parte delle volte. Mi piace pensarci come un qualcosa di mutevole e costantemente in tensione con l’esterno. Un equilibrio chimico in continuo bilanciamento, un bagagliaio di esperienze da riempire, assorbendo tutto ciò che ci accade e ci circonda. Mi ritrovo più nel concetto di cambiamento al passo con il mondo che esploriamo, che sia alla partenza, durante il viaggio o al ritorno. L’importante è sempre accorgersi di come siamo stati cambiati. Il concetto di stasi e di immobilità mi fa paura. Come la maggior parte degli artisti non riesco a ricoprire un ruolo solo in un ecosistema ben specifico per troppo tempo. Mi risulta veramente asfissiante e poco stimolante. Penso di andare in saturazione con il quotidiano delle volte. Dunque sì, meglio cambiare, evolversi e osservare il mondo dinamico procedere nel suo corso, piuttosto che rimanere ingabbiati nella stasi della routine.

L’arte e gli spettacoli hanno subito una pausa forzata in questo ultimo anno e mezzo: adesso che i palchi sono di nuovo utilizzabili cosa hai voglia di fare davvero?
L: Penso che la risposta sia scontata. Scrivo queste parole con addosso ancora l’adrenalina del primo concerto in acustico, una cosa intima e molto local, dopo un anno e mezzo di stop. Ho sempre vissuto molto intensamente l’esperienza sul palco, dando tutto me stesso, in termini di energia e creatività. Da chitarrista con un forte background rock necessito di volumi alti, soli di chitarra, rullanti che spaccano i timpani e cavalcate di basso e batteria. Per quanto si possa cercare di nascondere dietro produzioni indie pop/rock questo mio lato prettamente “analogico” e “suonato”, almeno dal vivo viene fuori in tutta la sua ingombranza. E le persone che mi conoscono veramente o che mi seguono sanno quanto tutto questo mi sia mancato e quanto faccia parte indiscutibilmente del mio essere musicista. Quindi cosa voglio fare? Suonare, suonare e suonare.
V: Ora che l’arte ha ripreso a respirare e con sé tutti gli artisti mi auguro di avere sempre fame di danza, perché per me è un alimento senza cui non potrei vivere, o almeno vivrei in un mondo in bianco e nero. Mi auguro di poter continuare a lavorare per la musica e per la danza e di poter coronare uno dei miei sogni da quando sono piccolina, ovvero quello di poter entrare nella scuola di “Amici”.

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