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The Heavy Countdown #144: Perturbator, Frost*, Our Hollow Our Home

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Perturbator – Lustful Sacraments
Se tutte (o quasi) le webzine metal stanno parlando di Perturbator ci sarà pure un motivo. C’è da dire che molti altri act simili prima (e dopo, visto che James Kent è un nome ben noto nella scena) sono stati associati alle frange più estreme di un certo metallo (Gost, Health e anche Carpenter Brut), e sebbene per “Lustful Sacraments” non si possa parlare a tutti gli effetti di metal, l’ultima fatica del musicista francese è tra le uscite più “heavy” degli ultimi mesi. Le eco post-punk, goth anni ’80 e techno (la title track o “Excess”), permeano la base dark synthwave da sempre fiore all’occhiello di Perturbator. Niente di nuovo sotto al sole quindi, ma l’omaggio a determinate sonorità è talmente riuscito e personale, da non risultare stantio. Lugubre ma morbosamente affascinante (“Death of the Soul”), questo è il vero significato del sostantivo “perturbator”. E della sua musica.

Frost* – Day And Age
Una delle più grandi capacità dei Frost* di Jem Godfrey è da sempre il reinterpretare gli stilemi del prog rock (e talvolta metal, se vogliamo essere davvero precisi) con una sensibilità contemporanea e pop (definizione non azzardata, dati i trascorsi del mastermind), regalando con parsimonia poche gemme sparse in una carriera ormai pluridecennale. “Day and Age” non fa eccezione, catapultandoci a volte nelle atmosfere più sognanti degli Eighties (la title track) e spiazzando con curiosi episodi sperimentali (la surreale “The Boy Who Stood Still” e l’intricato trip di “Kill the Orchestra”).

Our Hollow Our Home – Burn in the Flood
Dopo aver brillantemente elaborato un lutto importante (mi riferisco a “In Moment / / In Memory”, 2018) gli Our Hollow Our Home pubblicano “Burn in the Flood”, del quale abbiamo avuto modo di ascoltare diversi estratti nel corso dei primi mesi del 2021. Pur essendo meno ispirato rispetto alle due uscite precedenti, la nuova fatica della formazione originaria di Southampton mantiene intatto il trademark che ha fatto drizzare le antenne a molti appassionati di metalcore contemporaneo, con questi refrain “larger than life”, carichi di emozioni (“Monarch”, “Better Daze” e “Remember Me” con l’ottimo Ryo Kinoshita dei Crystal Lake), in contrapposizione alle aggressioni dirette. Solo in “Children of Manus” l’irruenza è l’unica indiscussa protagonista, ma rimane un episodio isolatissimo in un album equilibrato ma non (alla lunga) memorabile.

Atreyu – Baptize
Se “Baptize” sta a indicare una sorta di rinascita per gli Atreyu, non lo rappresenta di certo per noi dall’altra parte della barricata, che almeno dai tempi di “In Our Wake” (2018), siamo intrappolati in un limbo, strattonati al crocevia tra metalcore e pop. E sappiamo benissimo alla fine dove si andrà a finire, se escludiamo rari momenti heavy in cui i Nostri vanno a rimestare nel torbido (“Underrated”, “Broken Again”). L’immancabile ballad strappamutande (“Stay”), gli ospiti di grido (tipo, ma dai, Travis Barker) e gli inni motivazionali (“Warrior” per l’appunto), non servono a risollevare le sorti di un disco che abbiamo già sentito tante altre volte. Dagli Atreyu e non solo.

Hacktivist – Hyperdialect
Rapcore, anzi, grime metal (come amano autodefinirsi gli Hacktivist stessi) cattivissimo e viscerale. O meglio ancora, visto che siamo pignoli, rap snocciolato su di un tappeto metalcore. Due elementi che a volte vanno d’amore e d’accordo (“Armoured Core”, con Kid Bookie) e che altrettante volte stridono irrimediabilmente (“Lifeform”, per esempio). Sono proprio i due rapper JT Hurley e Jot Maxi i veri protagonisti di “Hyperdialect”, che già si erano fatti notare con il debutto del 2016 “Outside the Box”, ma che insieme alle tematiche attuali e distopiche, rimangono l’unico punto di forza di un disco gradevole ma molto ripetitivo.

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