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The Heavy Countdown #148: Tesseract, Leprous, Jinjer

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Tesseract – Portals
Purezza del suono e perfezionismo, questi sono i Tesseract di “Portals”, un live che più che altro è un’esperienza a 360 gradi, da godere appieno con la visione del blu-ray del concerto, che permette di rivivere l’atmosfera dello streaming di qualche mese fa. Come da buona tradizione della band di Milton Keynes, “Portals” è una narrazione cinematografica più che una “semplice” performance, fatta non solo di suoni ma anche di luci e potenza visiva. Menzione di merito al batterista dei Monuments Mike Maylan, sostituto di eccezione di Jay Postones, bloccato in Texas dalla pandemia, e all’introduzione in scaletta di una parata di chicche (tra le altre, la commovente “Tourniquet”, la strepitosa “Of Energy” e la spesso acclamata invano dai fan “Eden”).

Leprous – Aphelion
Che ormai la figura di Einar Solberg stia diventando man mano più ingombrante, “rubando” spazio alle chitarre (complice l’utilizzo sempre maggiore di archi, synth ed elementi orchestrali), è un dato di fatto. Con un’eleganza di altri tempi (vedi “Running Slow” o “Silhouette”) il vocalist e i suoi sfornano un disco che ad un primo ascolto può non convincere tutti, ma che con pezzi tipo la cristallina poesia di “Castaway Angels”, o “Nighttime Disguise”, con l’esplosivo growl finale, oppure con l’impalpabile (per i primi minuti) “Out Of Here”, e la sua conflagrazione di sofferenza, dimostra quanto lontani siano arrivati i Leprous, sia dalle loro stesse origini, che nel firmamento del prog attuale. Forse parlando di immediatezza espressiva non siamo ai livelli di “Malina” e “Pitfalls”, ma la raffinata ricchezza del sound che i Nostri vanno costruendosi di release in release è roba da far invidia a molti e altrettanto scafati colleghi.

Jinjer – Wallflowers
Dopo “Vortex”, il primo singolo estratto da “Wallflowers”, e dopo l’hype spropositata che ha preceduto l’uscita del quarto sigillo firmato Jinjer, eravamo in tanti ad aspettarci una svolta più “mainstream” per il combo ucraino. Ma il malessere di fondo, la minacciosità, i cambi vorticosi (per l’appunto) di tempo e stile, unito a una brutalità bestiale (prendete solo “Call Me a Symbol”, “Copycat” e “Mediator”), insieme alle performance sempre più disumane di Tatiana Shmayluk (che spesso fa sparire dietro il suo talento e la sua presenza i compagni di avventure, pur essendo in realtà altrettanto brillanti, ognuno con il proprio strumento) fanno di “Wallflowers” un album ben distante da qualsiasi velleità “commerciale”, ma ben propenso ad accaparrarsi nuovi consensi, oltre a quelli del seguito della prima ora.

Phinehas – The Fire Itself
Non sembra ma i Phinehas sono già arrivati al quinto full-length in carriera, un traguardo importante e i californiani ne sono ben consci. “The Fire Itself” infatti si presenta come il tipico disco melodic metalcore, con pesanti accenti (melodic) post-hardcore, ma non si esaurisce ai ritornelli tanto facili da recepire quanto estremamente dimenticabili dopo pochi minuti, ma infarcisce il tutto con un buon guitar work, il che oltre a far onore ai Nostri, li rende anche una realtà solida e sempre più credibile (“Eternally Apart”, la title track, oppure “Defining Moments”).

Venues – Solace
Tra le sorprese del New Core (per usare una definizione che gli aficionados delle playlist Spotify apprezzeranno e coglieranno al volo), anche se quasi tutti i brani presenti in “Solace” sono già usciti i mesi scorsi come singoli, non possiamo non citare i Venues. La nuova fatica della formazione tedesca è uno zuccherino piacevole (“Whydah Gally”, “Shifting Colors”) che va giù che è una meraviglia, grazie all’alternanza gradevole e bilanciata tra riff e inserti elettronici, e tra voce maschile e femminile. Da tenere d’occhio.

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