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The Heavy Countdown #149: Spiritbox, Turnstile, Eidola

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Spiritbox – Eternal Blue
C’è da dire che a volte troppo hype può essere deleterio. Grazie a dio, non è stato il caso degli Spiritbox, all’esordio discografico con “Eternal Blue”, anche se abbiamo avuto modo di conoscerli e apprezzarli da quasi un anno a questa parte grazie a singoli potentissimi (“Holy Roller”, “Circle With Me”). Per quanto il melodic progcore dei canadesi sia di livello ma abbastanza standard per il genere di appartenenza e in linea con i tempi che corrono, la vera forza del combo è la frontwoman Courtney LaPlante, una furia nello screaming (prendete la già citata “Holy Roller”, che poi è il pezzo più atipico dell’opera), ma al tempo stesso delicata e pop nei brani più melodici di “Eternal Blue”, che alla fine sono quelli che fanno la differenza (“Secret Garden”, “We Live in a Strange World”). Abbastanza nella norma invece il duetto con Sam Carter in “Yellowjacket”, una delle canzoni meno incisive di un lavoro che invece, nel suo complesso, farà parlare ancora a lungo di sé.

Turnstile – Glow On
Si è fatto tanto parlare di “Glow On”, che quasi mi stava scappando la voglia di ascoltarlo. Alla fine, però, il mio senso del dovere ha vinto, e le mie orecchie ringraziano. Come già scritto in occasione dell’uscita del precedente “Time & Space” (2018), il vero punto di forza dei Turnstile è la genuinità. “Glow On” rappresenta ciò di cui gli amanti dei concerti underground hanno più bisogno: un live in un club minuscolo, sporco, maleodorante e rovente, con un’acustica pessima. Un’esperienza che può capire solo chi se ne cibava avidamente nel mondo “prima”. Excursus a parte, il successo della terza fatica dei Turnstile risiede nelle sperimentazioni, oltre che nella vena melodica vibrante sotto la superficie (retro) hardcore (prendete “Endless”), in un amore malcelato per gli elementi percussivi (“Blackout”, “Don’t Play”), e in quella componente “dreamy” presente fin dalle nuvolette della copertina, e che salta spesso fuori (“Lonely Dezires”).

Eidola – The Architect
Dopo l’ottimo “To Speak, to Listen”, gli Eidola si sono fatti attendere tanto, troppo. A prescindere dalle ragioni per lo più esogene alla formazione, parliamo di oltre quattro anni, silenzio che solo pochi artisti al mondo si possono permettere. Battere il ferro finché è caldo, dicevano i saggi (specie se sei una giovane band prog/swancore). Il quarto full-length dei Nostri parte subito bello aggressivo con “Hidden Worship”, ma molto sovente cede il passo a un fare più scanzonato (“Caustic Prayer”), avvicinandosi sempre più ai Dance Gavin Dance di oggi (infatti non è un caso che in “Mutual Fear” un certo Jon Mess presti le sue corde vocali, e che il vocalist e polistrumentista Andrew Wells tenga il piede in due scarpe, una delle quali sono proprio i DGD). Nonostante, almeno nelle intenzioni, i ragazzi rimangano sempre mistici e filosofici (“Perennial Philosophy”, “Occam’s Razor), “The Architect” è un lavoro sì piacevole, ma a cui manca quel guizzo che rendeva “To Speak, to Listen” un grande album.

Carnifex – Graveside Confessions
I sempre sobri (e per questo li adoriamo) Carnifex tornano con la loro nuova fatica discografica, “Graveside Confessions”. Un nomen omen evidente dalla copertina meravigliosamente trucida, ma anche dal consueto minestrone deathcore, o per essere pignoli, symphonic blackened deathcore, dato che come succede da molti anni a questa parte, gli organetti e tutto l’ambaradan non si fanno di certo desiderare (prendete la title track, per esempio). Un disco lungo, denso e impegnativo (contiene anche una cover di “Dead Bodies Everywhere” e la riedizione di tre pezzi tratti dal debutto dei Carnifex), quindi se tutto questo cinema vi diverte, sapete dove trovare la solita garanzia, altrimenti, meglio girare alla larga.

Employed to Serve – Conquering
I cattivissimi Employed to Serve (soprattutto la vocalist Justine Jones) cementano il loro status grazie a “Conquering”, quarto album in studio, in cui ribadiscono il concetto che il loro hardcore metalizzato, nella scena contemporanea, ha pochi pari in termini di ferocia (The Mistake), e in cui continuano a miscelare sapientemente le reminiscenze thrash (“Twist the Blade”, “Mark of the Grave”), offrendo come se non bastasse efficaci ed azzeccati ganci melodici (“Eternal Forward Motion”). Niente di nuovo sotto il sole per carità, ma un ascolto energizzante e vitaminico.

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