Interviste

L’Ultima Fila ci insegna l’arte di affrontare Un Mare Alla Volta

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“Un mare alla volta”, il disco d’esordio de L’ultima fila, è uscito il 7 luglio: con 9 tracce e la distribuzione di Artist First, il disco è stato preceduto dal singolo “Mal di mare”.

La band romana L’ultima fila è andata alla ricerca di un nuovo sound per questo disco: la canzone italiana si è unita alla sperimentazione, al folk indipendente d’oltreoceano e al post rock nordeuropeo, fra distorsioni e pianoforti. La band si è formata a Roma nel 2016, ed  formata da Marco D’Andrea, Pasquale Dipace, Lorenzo Di Francia, Giacomo Turani

“Un mare alla volta” mi sa di cercare di affrontare una cosa alla volta. Un problema alla volta. Un casino alla volta. Che ne pensate?
E’ esattamente così. Per quanto sia grande, duratura o articolata la cosa da affrontare… una alla volta, per favore. Anche se non sempre si può fare.

In “I vestiti più leggeri” parlate di cercare di andare in profondità, volerlo fare, ma riuscire a scalfire la superficie appena. È perché abbiamo paura di scendere troppo e scoprire cose che stanno meglio nascoste, o perché magari non vogliamo davvero essere visti, preferiamo essere lasciati in pace? Cos’è che ci impedisce di restare in mutande in sintesi, e magari di toglierci pure quelle?
Sarebbe bello sapere che cosa ci impedisce di farlo. “I vestiti più leggeri” è una canzone che parla di un rapporto strano, una tensione che è sempre stata tangibile, elettrica, ma che nessuno ha voluto/potuto (a volte le circostanze non sono sempre favorevoli) o anche che nessuno è riuscito a far emergere. A volte forse è meglio dire una verità impacciata e imbarazzata, piuttosto che restare a guardare.

Se poteste suonare ovunque, con chiunque e in qualunque periodo storico, cosa succederebbe?
Non siamo troppo dei nostalgici riguardo alla musica, ci piace il periodo che viviamo e la libertà che consente, un po’ meno come vengono trattate certe realtà (sia di posti in cui suonare sia a livelli organizzativi) che invece andrebbero coltivate e magari finanziate meglio.
PS. Se si potesse, proveremmo qualsiasi cosa… un sacco di viaggi temporali e ipotesi strane: pensa un live a due pianoforti Bill Evans e Mozart.

In “Bravi ragazzi” parlate di cercare di creare se stessi, definirsi, andare in giro con scritto “lavori in corso” addosso. Ma non è sempre così, non siamo costantemente “lavori in corso”? Se smettessimo di esserlo probabilmente saremmo morti. Letteralmente. Credo.
“Bravi ragazzi” è un po’ una nostra polaroid di questo periodo, che speriamo di guardare con il sorriso tra dieci anni. È il sentimento di persone che devono capire che strada prendere nonostante tutti i giorni ci siano onde altissime in direzione contraria. Nel casino comunque “Weimar” fu un momento di respiro e il disco si chiude così. Vogliamo trovare la strada, non tutte le risposte. Se trovassimo tutte le risposte non avrebbe senso vivere come dici, ma quantomeno capire da che parte stare.
Noi abbiamo una mezza idea.

Come mai “L’ultima fila?”. Perché a scuola volevate sempre stare in ultima fila e puntualmente vi obbligavano a sedervi davanti?
(ride) L’ultima fila ci piace pensarla come una stazione creativa, un punto in cui succedono necessariamente delle cose e dove, anche se non è così esposto, prima o poi tutti si trovano a passare. È la possibilità di un altro sguardo sulla realtà che a volte viviamo e invece a volte ci troviamo a subire.

Ultima domanda, l’unica normale temo: come promuoverete questo lavoro? Suonerete un giro?
La nostra dimensione naturale è quella live. Abbiamo, da poco, suonato a Roma, poi più verso sud nel continuo dell’estate.

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