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Artic Monkeys, The Car è ciò che ci si aspettava

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Dopo più di una settimana dall’uscita, The Car ha ricevuto un responso fantasma. Molti critici e appassionati potrebbero averlo ascoltato, ma hanno deciso di non parlarne o scriverne apertamente. Altri hanno perfino escluso la già remota possibilità di ascoltarlo, quasi come se si sentissero traditi dal nuovo paradigma jazzy adottato dalla band negli ultimi due album. Pensare ad un lavoro compiuto degli Arctic Monkeyslascia sperare a molti che si riesca finalmente a tornare sulla vecchia onda alt-rock mantenuta straziantemente fino ad AM e decapitata con Tranquility Base Hotel Casino.

Si inizia con There’d Better Be A Mirrorball, primo singolo per anticipare il disco a metà settembre. L’atmosfera che si respira è di estrema calma, perfettamente abbinata alla copertina del singolo rappresentante uno specchio d’acqua scintillante, proprio come una palla da discoteca che ruota lentamente sul posto. Una melodia in continuo andirivieni che culla l’ascoltatore sopra la soave voce di un Alex Turner ritornato sulla scena. Già da qui possiamo notare analogie e differenze con il precedente album.

I Ain’t Quite Where I Think I Am, seconda traccia, offre da subito la contrapposizione sonoro-stilistica del progetto: i suoni si fanno più secchi, dalle batterie ai bassi, e prolungati solo da un coro monotono per ogni ritornello. Ma ciò che ipnotizza maggiormente le orecchie al brano è il riff di chitarra in intenso stile wah-wah ripetuta per quattro battute dopo il coro. Tutto si fa più cupo con Sculptures Of Anything Goes: il basso sintetizzato, accompagnato da una chitarra distorta e da violini verso la conclusione, si staglia prepotentemente sul secco giro di batteria. Il tutto assieme offre sicuramente qualcosa di interessante, ma che in qualche modo non colpisce fino in fondo, colpevole forse l’eccessiva durata e la lentezza del crescendo.

Riacciuffa l’attenzione Jet Skis On The Moat con un’altra chitarra wah wah, stavolta più lenta. La solita batteria secca rende il pezzo eccessivamente semplice ma non per questo meno coinvolgente. Lo stesso filone sembra seguire Body Paint, anch’essa poggiante su un piano lento e poco riverberato. Interessante qui è l’intermezzo di strumenti ad arco, su cui Turner sembra saltellare con la voce, che si sprigiona in un mix tra classico e moderno offerto dalla chitarra elettrica e l’orchestra.

La title track è il giro di boa del progetto a cui si accoda la successiva Big Ideas. La prima con un arpeggio che sembra essere infinito imposta il tono, la seconda con il medesimo schema, senza particolari sorprese.

Qualche spiraglio di cambiamento si nota con le ultime tre tracce. Si comincia con il ritmo upbeat di Hello You, anima melodica del disco governata da uno spettro di orchestra, campane, sintetizzatori e chitarre che, come un tappeto, sorregge la voce di Turner. L’atto pre-conclusivo è assegnato a Mr Schwartz, un focus su incertezza e perdizione tradotto in musica da cantina: batteria quasi assente e synth altalenanti. Perfect Sense è invece la degna conclusione che riassume musicalmente l’intero disco. Nulla di più, nulla di meno.

Rispetto a Tranquility Base, The Car assume un tono più cupo, terreno, pragmatico, lo si nota grazie a diversi accorgimenti formali. Se in TBHC la voce di Alex Turner è completamente riverberata, in The Car si mostra per ciò che è veramente: un paio di muscoli che, vibrando, emettono un suono risonante in una stanza piena di microfoni e pannelli fonoassorbenti. Infatti, la resa di The Car e le sequenze strumentali più lunghe inducono l’ascoltatore a lasciarsi andare come in THBC, ma in maniera differente: questi nuovi arrangiamenti spingono a scavare nell’animo, ad interrogarsi, non a sognare.

Nel tirare le somme The Car è un lavoro che l’estrema solidità rende eccessivamente statico. Un boccone che diventa fin troppo facile da digerire e lascia poco sapore in bocca, come se mancasse quel tocco di sale in più. Per contrasto lo statement di The Car sembra essere saldo in un panorama discografico che prosciuga gli artisti. Bisogna dar respiro agli artisti per permettere che siano loro a sviluppare la propria arte con le tempistiche giuste. È inopportuno perciò, aspettare con ansia il cambio di rotta o il turning point, la chiave sta nell’apprezzare un lento fluire e fiorire di idee.

Articolo di Riccardo Impagliazzo.

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