Interviste

Lory Muratti traghetta musica e parole attraverso un viaggio interiore tra morte e rinascita

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Le voci di LORY MURATTI CRISTIANO GODANOdopo diverse collaborazioni live, si incontrano per la prima volta in “GLI INVISIBILI”, il nuovo singolo estratto da “TORNO PER DIRVI TUTTO”, l’ultimo album del musicista, scrittore e regista varesino ispirato all’omonimo romanzo, disponibile in libreria e sugli store digitali.
Il monologo interiore che si sviluppa nel corso di tutto l’album, ne“Gli Invisibili” diviene un dialogo fra due anime “invisibili” che attraversano la vita con lo stesso sguardo sulle cose, che non si sono mai arrese né compromesse e che non hanno mai accettato di negare il proprio modo di sentire o di vivere per percorrere strade suggerite da altri. In “Torno per dirvi tutto” Muratti tratta il delicato tema del suicidio, visto e narrato come una scelta estrema in cui possono convivere dolore e speranza. Negli 8 capitoli del libro così come negli 8 testi delle canzoni che condividono i luoghi, le atmosfere e i personaggi, il musicista, scrittore e regista intreccia vissuto e finzione per raccontare una storia in equilibrio tra ombra e speranza, morte e rinascita. Sullo sfondo si alternano città e paesaggi mitteleuropei, tappe del viaggio dell’io narrante ma anche dell’artista, che per scrivere il romanzo e i testi dell’album si è recato a Praga, Vienna, Parigi e sul Lago di Bled in Slovenia presso il Grand Hotel Toplice. Il protagonista del romanzo è lo stesso Lory Muratti, che, fra le pagine del libro, si trasforma in un personaggio caratterizzato da un dono oscuro che attrae l’attenzione di chi è stanco di vivere e che ritrova in lui un complice ideale: un “facilitatore di suicidi”, votato ad accompagnare le anime alla deriva che lo riconoscono come un possibile traghettatore. Un “dono” che Lory ha ereditato dal padre, Andrea Muratti, sulla cui recente morte decide di indagare, combinando in un gioco di autofiction i piani della realtà e dell’immaginazione. Nel suo percorso esistenziale e narrativo, Lory si ritrova a fare i conti con il proprio lato oscuro, con il passato della sua famiglia, con la figura del padre, che sembra guidare i suoi passi anche oltre la morte, e con una misteriosa compagna di viaggio di nome Ecli.

L’album è prodotto dallo stesso Muratti con la produzione esecutiva di Orhan Erenberk, è composto da canzoni rock dall’animo orchestrale, che affondano le proprie radici nelle sonorità tipiche della new wave, ma che, al tempo stesso, si rifanno agli chansonnier francesi e al cantautorato italiano tradizionale.

Non è facile decidere se porre domande sul libro, sull’album o se sono talmente intrecciate le due opere che non possono scindersi. Tu che sei l’autore come le vivi?

Libro e disco sono due anime della stessa esperienza artistica. Sono perfettamente separabili e fruibili in modo indipendente l’una dall’altra, ma si arricchiscono vicendevolmente aprendo un mondo di riferimenti più ampio quando vengono scoperte entrambe. Nella mia personale cosmogonia parola scritta e cantata sono in eterna relazione. È dalle pagine del libro che sono infatti estratti i testi delle canzoni ed è al respiro della narrazione che sono riferite le atmosfere che ho cercato di catturare in musica. Due fronti quindi che non hanno necessariamente bisogno l’uno dell’altro per farsi scoprire, ma che si completano in modi nuovi e inaspettati una volta messi in dialogo.

Hai viaggiato fisicamente nei luoghi descritti e sicuramente lo hai fatto anche come viaggio interiore. La libertà ritrovata dopo la pandemia è stata una spinta in più?

Il percorso di vita che mi ha portato a raccogliere questa storia, anche e soprattutto attraverso i viaggi a cui accenni, è iniziato in verità sei anni fa. È un viaggio lungo e complesso quello che soggiace a questa pubblicazione che sto vivendo infatti come una “liberazione” nel senso migliore del termine. La libertà ritrovata dopo gli eventi che ci hanno colpiti con la pandemia, è stata invece utile a riprendere le fila del progetto in termini più organizzativi e manageriali. Attività indispensabili a trovare una collocazione e avviare un percorso di pubblicazione di una così lunga gestazione. È stato grazie a Riff Records, FreecomHub e Miraggi Edizioni che, in tempi non facili, è stato possibile avviare un progetto così articolato. Sperimentare in termini artistici prevede di conseguenza la volontà di avventurarsi su strade poco battute anche da parte dei compagni di viaggio, in questo caso particolarmente coraggiosi.

La storia è talmente particolare e travolgente che trascina chi legge e chi ascolta in luoghi bui e profondi della propria anima. Quanto a fondo hai scavato dentro di te prima di affrontare queste due opere?

Mi fa molto piacere sapere che hai vissuto queste emozioni confrontandoti con il lavoro. Scendere in profondità credo sia prerogativa di un certo modo di stare dentro l’opera sia nella fase di ricerca che di stesura. Questo tipo di viaggio interiore va di pari passo con la costruzione del lavoro e non riesco a distinguere una vera e propria fase preliminare, fatta eccezione per quelle vicende umane che si configurano come scaturigine dell’opera stessa. Mi capita sempre, a un certo punto della costruzione del lavoro, di sentire che sono approdato in un luogo del pensiero al quale non so dare un nome, ma dentro il quale riesco a rivivere il vissuto rielaborandolo come se fosse presente. È da quel momento che divento tutt’uno con l’opera dentro la quale sento di abitare fino a quando il viaggio non si è completato. È questo il modo in cui scavo dentro me ed è il lavoro stesso a permettermi di compiere questo percorso.

In “Torno per dirvi tutto” si tratta il delicato tema del suicidio, dire delicato è poco. Le domande che avrei da farti sono tante e si accavallano nella mia testa e non vorrei cadere troppo nel personale ed essere indelicata. Durante l’arco della tua vita hai avuto a che fare con questi pensieri, magari non te direttamente, ma hai avuto modo di parlare con qualcuno che è stato sfiorato da queste sensazioni?

Credo che, in varie forme (foss’anche solo a livello di speculazione intellettuale) alla maggior parte di noi sia capitato di ritrovarsi in questo tipo di pensieri almeno una volta nella vita. Per questo trovo assurdo evitare il dialogo a tal proposito. Dal canto mio sento che tutta l’opera a cui ho dato vita, pervasa da un sottile fil rouge in cui questo tipo di emozioni sono ricorrenti, mi ha permesso di sublimare quei pensieri che avrebbero altrimenti potuto prendere un altro posto, ben più ingombrante e difficile da gestire sul piano reale. Questa consapevolezza si è mescolata al vissuto di un amico e di altre persone abbastanza vicine che hanno deciso di prendere quella strada e lasciarci. Tristi eventi che hanno però avuto un ruolo secondario nel mio lavoro attorno al tema del suicidio. Un tema che, nel mio universo artistico, ha un significato fortemente simbolico ed è profondamento connesso con la libertà individuale. Non tanto la libertà di mettere fine alla propria vita quanto di interpretare il proprio viaggio secondo regole che, in ultima istanza, hanno a che fare solo con chi siamo profondamente, al netto di qualsiasi condizionamento sociale e imposizione che sono per me il più grande veleno dell’esistenza.

Cos’è per te l’ineluttabilità del tatuaggio e da dove è nata questa idea?

Ho sempre vissuto la contraddizione dell’essere attratto dai tatuaggi che vedevo o incontravo sulla pelle degli altri e al contempo del non trovare la via, il senso o il motivo di lasciare alcuna traccia sulla mia. L’idea di fermare nel tempo un vissuto in modo così ineluttabile, per me che ho sempre idealizzato il passato, il ricordo e il tema della memoria, sarebbe forse troppo da affrontare. Al tempo stesso poter leggere oltre il disegno inciso sulla pelle di chi ho di fronte, mi mette in contatto (nel bene e nel male) con il brivido di trovarmi a esplorare una stanza in penombra. La sensazione di essere al cospetto di quella parte di vita che soggiace al disegno stesso e che è una porta di accesso all’universo di chi abbiamo di fronte. Una sensazione che mi turba e che mi attrae al contempo.

Sei sicuramente un’artista su più fronti e di questo te ne sono grata. Hai detto che non potendo suonare con un’orchestra avresti potuto suonare come un’orchestra. Mi piacerebbe molto approfondire questo concetto.

Da tempo desideravo realizzare un disco per pianoforte e orchestra e ho provato a lungo a organizzare quel tipo di sessioni per questo lavoro. Da un lato le risorse economiche per poter affrontare un progetto che non si limitasse a una giornata di recording dentro la quale dover raccogliere tutto il contributo dell’orchestra in una volta sola e dall’altro la volontà di creare una tessitura di arrangiamento non consueto all’interno della forma canzone, mi hanno però spinto naturalmente in un’altra direzione. Ho così iniziato a concepire il lavoro “per contrappunto” ovvero raccogliendo il contributo di musicisti con provenienze disparate (in questo disco la commistione di musica contemporanea, canzone d’autore e rock è la vera chiave di lettura) ai quali ho chiesto di suonare liberamente sullo scheletro delle canzoni che avevo scritto. È nato così il materiale che ho poi riorganizzato trattandolo e utilizzandolo come fosse parte di un grande universo di parti da mettere in dialogo fra loro. Mi sono in sostanza comportato come un direttore d’orchestra impegnato però, invece che a dirigere decine di elementi in contemporanea, a distribuire, tagliare e intrecciare centinaia di parti in un fraseggio quasi ininterrotto che non sarebbe stato possibile immaginare a priori come si fa quando si scrivono appunto le parti per un’orchestra.

L’album è composto da otto brani rock con sonorità new wave, ma ascoltandole sono racconti profondi dove l’orchestrazione accompagna in una naturalezza disarmante i testi. Oltre la musica, oltre le parole, quanta importanza hanno avuto le immagini nella tua testa?

Penso al mio modo di procedere, anche nella produzione musicale, come alla creazione di un dipinto astratto o di una scultura. È un processo in divenire di cui è complicato immaginare anche le tempistiche. Durante la lavorazione di un disco aggiorno di continuo l’agenda perché nulla di quello che penso di portare a compimento entro una certa data si completa effettivamente nei tempi che mi ero immaginato. Inseguo una visione che si va costruendo nel divenire della produzione stessa ed è proprio l’essere guidato da quell’immagine (e da tutte le visioni che scaturiscono in parallelo alla stessa) che detta logiche, tempi e modi. Arriva poi sempre un momento in cui tutto si completa e so di essere giunto a destinazione. In genere accade all’improvviso e da lì in avanti la questione si fa puramente tecnico-formale. Solo a quel punto posso tornare ad aprire l’agenda e organizzare a priori le mie giornate.

Un altro argomento del quale mi piacerebbe parlare è del video. Un progetto dove hai scelto di mostrarci un universo non visibile ai nostri occhi. Cos’è che non riusciamo a vedere veramente?

L’universo visivo e in particolare il videoclip (che è la forma alla quale come regista sono maggiormente legato) si configurano nel mio immaginario come il luogo-non luogo deputato alla messa in scena del materiale che popola il subconscio. La dimensione visiva all’interno delle mie opere assurge quindi a luogo di raccolta dei vissuti rimossi e diviene proiezione di sogni e incubi. Gli stessi che accompagnano il percorso del protagonista nel libro, gli stessi di cui anche le canzoni si nutrono con la differenza che, mentre nel libro è la storia a guidarci e nelle canzoni sono le emozioni più viscerali, nella dimensione visiva del progetto intravedo invece la possibilità di dare spazio a ciò che si cela allo sguardo poiché risiede negli angoli più remoti del nostro sentire. È così che le mie produzioni come regista si popolano di segni da seguire e di visioni che, spesso, non sapevo di portare dentro me.

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