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Interviste

Handlogic, da un buco nero alla luce con “Esseri umani perfetti”

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“Esseri umani perfetti” è il titolo del primo disco in italiano degli Handlogic, e il secondo disco della carriera della band fiorentina: un disco che “parte da un buco nero e sale su”, come ci raccontano in questa intervista.
Gli Handlogic, nati nel 2016, hanno lanciato il disco dopo la pubblicazione dei singoli “Libera (esseri umani perfetti)”, “Casa stanza letto dormi” e “Benda”. “Esseri umani perfetti” raccoglie 11 brani che salgono vero l’alto con le unghie e con i denti, partendo dal buio e tendendo alla luce. È una sceneggiatura di un film, più che un semplice disco, ed è anche il coraggio di comunicare direttamente quello che provano grazie alla lingua madre di una band che si è aggiudicata il Rock Contest, ha aperto per i Verdena e si è portata a casa il premio “Musica da bere”.

Questa domanda in realtà non è improbabile: come mai siete tornati all’italiano? È sicuramente più facile esprimersi nella propria lingua, ma la nostra, per certi versi, è una lingua che viene percepita come musicalmente complicata da usare. E poi ci si scopre sempre un sacco a parlare nella propria lingua, le persone che vengono a vederti capiscono subito cosa dici: manca lo schermo dell’inglese dietro cui imboscarsi per poter pensare “sì, mi metto a nudo, ma tanto la gente non capisce mica nulla di quello che sto dicendo”.
Nel nostro primo disco in inglese, Nobodypanic, c’era una canzone (Perched) che avevo scritto in un periodo in cui soffrivo di attacchi di panico, ed era dedicata a quella sottile sensazione di paura perenne che il panico potesse ritornare da un momento all’altro. Quando abbiamo presentato il disco nel 2019, una ragazza dopo il concerto mi venne a dire che era dovuta uscire dal locale perché aveva iniziato a sentirsi male verso la fine del brano, al che le chiesi se avesse capito il testo e se le fosse risuonato: lei mi disse che non sapeva parlare inglese. Nonostante la barriera della lingua in quel caso l’emozione era arrivata, ma era un caso più unico che raro. Dopo il concerto i feedback erano sempre incentrati solo ed esclusivamente sulla musica, i suoni, gli arrangiamenti, la nostra performance. Flash-forward quattro anni dopo, 26 maggio 2019, presentazione di “Esseri umani perfetti” a Firenze. Dopo il concerto tutte le persone con cui ho parlato non hanno menzionato minimamente l’aspetto musicale, tutti mi hanno parlato delle parole, di come l’avesse toccato questo o quell’altro brano, di come fosse arrivato il senso del disco come un qualcosa di potente e unitario.
Per me è stata la dimostrazione lampante di come per anni avessimo cantato e raccontato parole che non sono mai arrivate in profondità dell’ascoltatore, perché in una lingua non nostra, che è solo suono, che è più una posa giovanile e un retaggio post-adolescenziale che un vero mezzo espressivo.
Cantare in italiano adesso è facile e non potrei immaginarmi di tornare indietro, ma ci sono voluti quattro anni interi per accettare questa transizione e buttarsi in questo mondo. Per la prima volta in effetti è un mettersi a nudo e dire veramente qualcosa di sé, condividere una propria verità con chi sta davanti. Il che è spaventoso, ma allo stesso tempo non può essere altrimenti.

L’artwork e la musica stanno benissimo insieme, li adoro. Fanno venire in mente il “sublime” di pittori come Caspar David Friedrich, o come quando sei davanti a una tromba d’aria. Certo, potresti crepare, ma è talmente bello e spaventoso che te lo senti nello stomaco. Come è nata quell’immagine?
Grazie!! Riporterò i complimenti a Elena Molino, la nostra art director e splendida grafica. La copertina me l’ero immaginata esattamente così, da quando ho guardato quello scoglio con occhi diversi mentre stavo scrivendo il disco.
Si tratta di uno scoglio che si trova sotto la nostra casa di Quercianella, cittadina di mare dove ho passato tutte le estati da quando sono nato, e a cui sono legato spiritualmente da sempre. Da quando ho iniziato ad andare in terapia ho iniziato a fare caso che tutti i miei sogni sono quasi sempre ambientati a Quercianella, in quella casa, tra quelli scogli. Lì ci sono i miei ricordi, i miei fantasmi, i miei traumi e le mie scoperte. Per scrivere questo disco sono tornato lì, e sono tornato bambino, per cercare di capire cosa era successo. Per questo era necessario che in copertina fossi nudo, al centro della scena, su quello scoglio in mezzo al mare agitato.
Ma è una sensazione ambivalente, da un lato voglio essere guardato e voglio spogliarmi di tutto, dall’altro mi ritraggo, mi rannicchio, mi nascondo dall’occhio di chi guarda. 
È la stessa sensazione che provo sul palco e in generale quando condivido questa musica. E sono arroccato su questo scoglio che è un punto fermo della mia vita, è qualcosa di immutabile, di perfetto, la mia radice che mi riporta a terra e mi salva dall’abisso. Come la copertina del singolo “Libera”, avevamo come reference proprio i quadri di Friedrich, perché li amo follemente da quando li scoprii al liceo: guardando quelle immagini mi è sempre venuto un nodo allo stomaco, un desiderio feroce di voler essere quella figura umana in mezzo all’assoluto, la paura di venire schiacciati e la sensazione sublime di cosa è la vita realmente. Ed è stata anche la stessa tensione che ho provato a riportare nella musica, questo senso di epicità e di ascesa, di magnifica grandezza, di un mondo interiore che esplode e si fonde con la natura selvaggia, con il mare che ti abbraccia e ti accoglie ma che ti può anche inghiottire e distruggere.

Avete scritto che “il cerchio è una spirale e stiamo andando su”. Ci sono studi che dicono che, se le popolazioni anglofone e sassoni si esprimono in modo lineare (diretti come treni da A a B) e quelle latine tendono a fare incisi, ma non troppi (da A a C per arrivare a B), sono quelle arabe e asiatiche che hanno una costruzione linguistica a spirale. Sono tutti modi per capire come funziona la nostra testa. Nella vostra testa ci sono spirali, o andate da A a B?
Non lo sapevo! Sono andato a leggermi qualcosa sul tema, molto affascinante. Ora che ci penso hai trovato una chiave di lettura ulteriore per questo album, perché in effetti la costruzione all’interno dei brani, e in generale dall’inizio alla fine del disco, l’ho concepita come una spirale ascendente che parte da un buco nero e va verso l’alto, verso il cielo, verso una luce infinita. Probabilmente anche le parole vanno un lungo viaggio a spirale per raccontare all’ascoltatore ciò che voglio dire veramente, che si manifesta probabilmente solo nell’ultimo brano del disco. Durante l’ascolto ci sono tanti tasselli, come frammenti di un puzzle, che piano piano iniziano ad acquisire senso. E sì, la frase “siamo in cerchio a girare / ma non lo penso più / il cerchio è una spirale e stiamo andando su” arriva come una sintesi finale del disco.
Una costante sensazione nella mia vita (che poi provavo a rappresentare nelle canzoni) era quella di andare sempre in cerchio, di ritornare sempre sugli stessi errori e gli stessi pattern, che tutto si ripetesse senza uguale come una condanna. C’era anche uno dei nostri primi brani che si chiamava Oroboro, il serpente che si mangia la coda, che simboleggia proprio questo. Invece in questo disco ho avuto un cambio di prospettiva; questo percorso che stiamo facendo visto con occhi diversi è una spirale, e questa spirale ci sta portando in su. È un modo per dire che tutto ciò che pensiamo di fare nello stesso modo, le esperienze e le emozioni che viviamo ciclicamente, in realtà sono sempre diverse perché avvengono a un nostro io diverso, cresciuto, arricchito proprio di quelle esperienze passate.
È ciò che succede musicalmente, ogni brano in fin dei conti è un lungo crescendo con un’esplosione finale, e quello che sembra un loop inesorabile che non può finire mai (tipo la seconda parte di “casa stanza letto dormi”), in realtà cresce impercettibilmente, sempre di più, fino a quella che può essere interpretata come una distruzione e una morte, ma per me è una deflagrazione catartica, è un essere inglobati dalla luce.

Avete costruito il disco come fosse una sceneggiatura: vi piacerebbe, però, scrivere musica per un film? E per che tipo di film?
Moltissimo. Ho sempre scritto musica immaginandomi delle scene, avremmo fatto un film del disco ambientato a Quercianella con ogni brano rappresentato visivamente nei minimi dettagli, se avessimo avuto soldi (ahah.)
Quindi ci siamo limitati a scrivere la sceneggiatura, che poi è un modo per amplificare la sensazione di viaggio immaginativo che ci siamo fatti creando il disco e che vorremmo che l’ascoltatore facesse.
Un giorno mi piacerebbe molto scrivere musica per film, non partendo dalla musica e i suoni ma dalle immagini, dalle complessità dei personaggi in scena e le loro interazioni.
Mi immagino un film dalle tinte surreali e psichedeliche, basato però sulla realtà quotidiana, sulle dinamiche psicologiche all’interno dei rapporti interpersonali. Una specie di visione distopica della realtà moderna, un filmone epico che ti prende la pancia e che possa risuonare con le emozioni di tutti.

Ok, momento tecnico: ci dite se e quali date sono in arrivo?
Risposta tecnica:
28/6 Aniene Fest – Roma
06/7 Lugo Contemporanea – Lugo (RA)
20/7 Flood Festival – Barberino (FI)
22/7 Malpighi Festival – Arezzo
28/7 Live Artena – Artena (RM)
29/7 Diluvio Festival – Ome (BS)

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