Dischi
Forelock, Follow Me un ep senza confini
“Follow me” è il nuovo EP di Forelock, uscito il 6 giugno per La Tempesta Dub: cinque pezzi, di cui uno dedicato a Juba Lion, artista giamaicano recentemente scomparso. Rispetto al roots reggae del passato, “Follow me” spazia molto di più e allarga i propri confini, senza preoccuparsi di chi quei confini pretende di mantenerli rigidi: niente stereotipi o gatekeeping nel lavoro di Forelock, quindi. “Follow me” è il primo EP pubblicato da Forelock come solista. La stesura dei brani è iniziata nel primo lockdown: nati come provini, la parte strumentale è stata sviluppata da Ultranoize, mentre al mix c’è Paolo Baldini.
“Questo lavoro è uno sfogo personale di qualcosa tenuto inconsciamente a bada per tanti anni – spiega Forelock – La mia vita è stata mossa dalla musica da sempre. Partito dalla musica classica, mi sono poi appassionato alle musiche etniche di tutto il mondo. Mi ha sempre affascinato come la musica rappresenti una via magica, libera ed accessibile per farti volare ovunque tu voglia. Pensieri, sensazioni, sentimenti, ricordi, è tutto parte della stessa gita quando lei suona. Non ho mai trovato qualcosa che mi facesse provare un così forte sentimento di appartenenza. Riconoscersi ed immedesimarsi nelle cose che ascolti è una forza che mi ha permesso di stare bene anche quando non stavo proprio bene. Mi sono innamorato tante volte di sonorità davvero lontane tra loro sino a quando, durante l’adolescenza, ho scoperto la cultura giamaicana, la sua musica e ciò che questa rappresenta per tutte le minoranze del mondo”.
Rispetto alla tua musica precedente hai un po’ mollato le maglie del genere cui appartenevi, e ti sei messo a giocare un po’ di più. Hai sentito la paura di essere additato come “traditore” dai cosiddetti gatekeepers, oltre alla ritrovata libertà di fare un po’ il cavolo che ti pare?
Ho “giocato” sin da subito in realtà, dai primi momenti in cui ho iniziato a scrivere prima di cantare il mio primo brano ormai diversi anni fa. Quello che è successo è che poi ho iniziato ad incanalare la creatività verso una direzione lasciando fuori il resto. Questo per dire che comunque il gioco libero è sempre stato dentro di me in qualche modo, semplicemente mettevo da parte le cose che non rientravano in certe griglie di genere per assecondare invece un discorso che ha sempre riguardato il mio ruolo dentro la mia vecchia band, Arawak. Non ho mai sentito la paura di essere additato come “traditore” per due motivi: Uno perché quello che faccio nasce da un’esigenza estremamente personale (e spero si senta) e non invece da necessità di accontentare un pubblico che si aspetta qualcosa. L’altro motivo è che conto molto sul fatto che i gatekeepers siano perfettamente in grado di rendersi conto che dentro questo EP c’è tutto il buono che fa parte della natura reggae. Magari ci vuole un po’, qualche secondo in più, ma se ami il reggae riconosci subito che chi canta “Follow Me” lo ha amato (e continua a farlo) almeno quanto te.
Ora, ho bisogno di una spiegazione tecnica: quale differenza senti tu, a livello di emozione, fra suonare reggae e dub?
Posso dire che a livello emozionale cambia un po’ tutto. Sono due approcci diversi per come la vivo io. Dipende molto dai contesti dei live reggae e dub: il concerto reggae (per quanto sia una musica nota per la sua ripetitività e che è anche il suo bello) ti concede uno spazio espressivo davvero vasto. Il concerto dub spesso è inserito in un contesto da ballo quindi si tende a dare spazio a liriche più energiche ed esortative. Sono due mondi fortemente collegati ma molto diversi. Il dub, quando non si tratta di quella variante UK col cassone dritto eccetera, ha anche sfaccettature che ti immergono in un mondo più riflessivo, quasi mistico, dove ogni minimo delay ti spinge a concentrarti di più sull’ascolto. Il reggae per me è invece un libro dove dentro scrivi e leggi delle storie, dove racconti di te e della tua urgenza personale. Leggere o scrivere in questo libro è come svegliarsi presto la mattina e fare un’ora di corsa… per poi sentirti fiero e in pace con te stesso. Qualcuno (tipo me) continua a sostenere che sia la musica più bella del mondo.
La musica da cui nascono le tue radici, il reggae giamaicano, è sempre stato portabandiera delle lotte degli ultimi: tu credi che la musica possa aiutare a cambiare le cose? E se sì, ci provi anche tu?
La musica in generale, come l’arte tutta, da sempre cambia le cose. Cambia gli orientamenti e stimola certi pensieri nelle persone. Chi fa musica deve essere ben consapevole di avere una grande responsabilità. Sarò sincero nel dire che io ci provo continuamente e il mio cantare in inglese/patois è una cosa che spesso, quando mi approccio ad un pubblico italiano, mette una difficoltà in più. Ho sentito il bisogno di raccontare al mondo del posto che amo e da cui provengo (la Sardegna) e di tanti problemi che derivano dall’essere isolani. Portando in giro il mio vecchio disco “To The Foundation” ho incontrato persone che condividevano i miei pensieri, capivano perfettamente di cosa parlassi quando alludevo a disagi e vantaggi di vivere circondati dal mare. “Follow Me” per me rappresenta proprio il senso del cambiare le cose. Queste sonorità più moderne, che siamo abituati a sentire associate a testi espliciti che non badano alla merda che provocano, sono in Follow Me accompagnate da un messaggio più consapevole. La musica deve prendersela con chi si merita davvero di essere schiaffeggiato verbalmente. Se la deve prendere con chi gioca con la pelle degli altri, deve puntare il dito verso chi ha davvero in mano le redini delle cose e può fare la differenza. Ascolto troppi artisti auto esaltarsi sulla base di stereotipi giustificati dal solo fatto di avere un microfono in mano. “Follow Me” è un disco leggero, ascoltabile da tutti ma l’invito non è a seguire me, ma piuttosto allineare un pensiero positivo e che porti a lasciar perdere le cose che (per me) non fanno bene al mondo.
Hai composto alcuni dei brani durante il primo lockdown e, come hai detto tu, cantare in un’altra lingua è anche un modo per raggiungere luoghi diversi. Le cose si fondono? Avevi bisogno di evadere, e quindi ti sei costruito questa barca per arrivare dove fisicamente non potevi andare?
Mi ricordo che durante il primo lockdown partivano challenge e varie catene di artisti sui social con sfide e robe simili. Partecipai ad alcune di queste con qualche freestyle e fu lì, mentre vedevo il fervore che si generava da parte di pubblici lontanissimi da me, che iniziò la voglia di dargli una forma diversa, continuare a lavorare sulla scrittura e far diventare quelle liriche un lavoro discografico. Sicuramente l’inglese costituisce un ostacolo per il pubblico locale al quale comunque mi approccio costantemente, ma è vero che avere ascoltatori da tutto il mondo dà una soddisfazione enorme. Proprio l’altro giorno ho realizzato che nelle statistiche Spotify l’Italia rappresenta una percentuale davvero piccola dei miei ascolti, considerando che sono italiano. La necessità di comunicare quello che canto però esplode a volte e sul palco rischio di raccontare troppo tra un brano e l’altro proprio perché sento il dovere di fare il possibile per far entrare tutti dentro il mio mondo. Penso che se mai avessi scelto di scrivere e cantare in italiano mi sarei trovato ad organizzare sottotitoli in inglese!
“Sing about love” è dedicata a Juba Lion: cosa ha significato, per te, questo artista?
Juba è stato un amico, l’unico vero amico con cui ho avuto modo di condividere cose belle in Giamaica. Per diversi anni è stata la mia finestra verso il mondo di Kingston, il mio Cicerone, promoter e saggio consigliere di vita. La notizia della sua scomparsa mi ha rotto dentro. Non sono più stato a Kingston da quando lui non c’è più… ci andavo tutti gli anni almeno per uno o due mesi. Era un figo nato e cresciuto nel ghetto di Kingston, con una storia assurda tra galera e redenzione. Tra le vie della città cantava le storie della strada e faceva venire la pelle d’oca a tutti, soprattutto alle signorine che andavano pazze per lui. Non c’era donna per cui lui non avesse una parola carina da spendere. Si doveva fermare sempre e ovunque a spiattellare il suo essere un super gentleman e le donne si scioglievano. Juba mi ha fatto vedere i lati diversi della Giamaica e del suo folle e nascosto underground. È stato colui che mi ha mostrato le ragioni per cui questa musica è diventata così forte e rappresenta un pretesto per risalire la piramide sociale che poi può permettere di uscire dalle grinfie della vita da ghetto. Non è la prima volta che lo cito in un mio brano ma questa canzone è tutta per lui. Spero che la sua anima sia stata assolta dai guai che ha causato durante la giovinezza e come dico ogni volta che inizio a cantarla sul palco “JUBA LION YOU LIVE FOREVER!”
Senti me: il lavoro si chiama “Follow me”. Ma se ti seguo dove mi porti?
Questo è un viaggio dove non serve che ti porti dietro niente. Ti porto in un posto dove vince il pensiero positivo. Disarmiamo questo innesco per cui l’artista deve essere un generatore di merda solo per far parlare di sé. Il packaging e l’estetica al posto della sostanza mi hanno rotto le palle. Alla fine io ascolto e faccio musica per stare bene. Farlo mi fa stare molto bene. La musica ti fa entrare in un mondo dove le cose brutte prendono una forma diversa e ti permettono di farle diventare le fondamenta per costruire un te migliore. Nel mondo dove ti porto non c’è spazio per limiti, barriere di razza e genere o altro. Siamo tutti nella stessa barca a ballare sui problemi di questo mondo dove noi tutti viviamo. “follow me inna this style, love you share ah turn back worthwhile” (Follow me whit this style, love you share it will turn back worthwhile)