Editoriali

Geographer racconta il nuovo album “A Mirror Brightly”: «Finalmente mi sento accettato dalla vita»

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Si intitola “A Mirror Brightly” il nuovo album di Geographer, in uscita venerdì 23 febbraio, a quattro anni di distanza da “Down and Out In the Garden of Earthly Delights”. Artista dalla voce angelica, fautore di un synth pop raffinato ed intimista, dal suono siderale, atmosferico e sperimentale, Mike Deni (questo il vero suo nome) nelle 14 tracce di questo lavoro, il cui titolo si riferisce alle luci del telefono, che brillano nei nostri occhi, rendendoci ciechi alla verità, fruga tra le macerie che lo circondano, in un mondo sempre più intrappolato nel tutto, dalla religione, ai social media. Pieno di domande, inquietudine, oscurità, “A Mirror Brightly” sa anche essere luminescente e nel suo sfarzoso minimalismo non rappresenta un’inversione di rotta per Geographer, quanto piuttosto un rafforzativo della sua essenza: una personalità artistica irrequieta, profonda e a tratti sfuggente, a cui ci ha abituati sin dall’inizio, nel 2007, quando si è trasferito dal New Jersey a San Francisco, dopo aver perso improvvisamente la sorella e, poco dopo, anche il padre. Con 8 album all’attivo, dall’esordio “Innocent Ghosts”, fino al già citato “Down and Out in the Garden of Earthly Delights”, il cantautore, oggi di stanza ad LA, è pronto a tornare con un disco prodotto per lo più da lui, reclutando i produttori Taylor Locke (Linda Thompson, The New Pornographers) , James Riotto (John Vanderslice, Samantha Crain) e Daniel Che (Run River North) per alcuni ritocchi finali. “A Mirror Brightly” non è semplicemente un lavoro autobiografico, ma un manifesto filosofico, a cui Deni ha lavorato ad intermittenza dall’estate del 2022 ed il suo impegno nel spingere tutto fuori dalla nostra comfort zone è evidente.

Dal tuo ultimo album sono trascorsi 4 anni, che periodo della tua vita è stato e come ha influenzato la nascita di questo disco?
«In effetti è passato un po’ di tempo. Mi sono innamorato e mi sono fidanzato. Finalmente ho incontrato la persona con cui passerò la vita e ora vedo qualsiasi cosa della mia esistenza attraverso questa lente. È un miracolo per me, che ho trascorso così tanto tempo della mia vita solo ed infelice. Sono ancora sotto shock per il fatto che il mondo abbia creato una persona come la mia fidanzata. Credo che la cosa mi abbia dato un enorme quantità di fiducia, come se finalmente fossi accettato dalla vita e credo di avere trasferito questa fiducia nel disco sotto forma di assunzione del rischio».

In che senso?
«Sento che queste canzoni respirano in un modo in cui i miei altri lavori non fanno. Non ho sentito la necessità di realizzare un determinato tipo di canzone, c’è apertura in questi pezzi, c’è esplorazione, come una persona che si trova da sola in una grande casa e si muove lentamente attraverso le stanze, senza fretta. Non credo che avrei mai potuto fare un disco simile prima, perché ero sempre concentrato nel raggiungere qualcosa, una pietra miliare, nel provare qualcosa a me stesso. Quando la musica ha smesso di essere la mia unica fonte di autostima, ho allentato un attimo la presa e ho lasciato che fosse lei a condurmi verso posti nuovi».

Molto di questo disco ruota attorno al sentimento di emarginazione che hai provato per gran parte della tua vita. Può l’emarginazione rivelarsi una forma di libertà?
«Assolutamente sì! Consente alla tua mente di essere libera e credo che questa sia la ragione per cui molti artisti sono degli emarginati. Quando sei intrappolato all’esterno delle mura di quella che tu vedi come la terra promessa, dove le persone si muovono senza sforzo avvicinandosi e allontanandosi le une dalle altre, facendo ciò che è naturale, e nulla riesce naturale anche a te, la tua mente inizia a guardare altrove per trovare appagamento. E molto presto scopri che una mente senza gambe può volare. E se potesse camminare, perché dovrebbe preoccuparsi delle ali?».

Oltre alla luce dei nostri telefonini, che ci si riflette negli occhi, rendendoci ciechi alla realtà, da cui hai preso ispirazione per il titolo, potremmo dire che in questo album è l’umanità stessa a fare da specchio alla tua esperienza individuale?
«Oh, affascinante! In questo momento siamo davvero lo specchio gli uni degli altri, no? Nei nostri telefoni guardiamo le immagini di sconosciuti, video di persone che non incontreremo mai e ci vediamo effettivamente riflessi o, meglio, ci attacchiamo a quello standard. Quindi lo specchio è la cacofonia falsificata, filtrata dell’umanità online. Lo adoro!».

Hai detto che credi che questo sia il tuo album più arrabbiato, nei confronti di chi o cosa?
«Quello che mi sconvolge è vedere le persone che detengono il potere pregare sugli altri, portare la rovina della pace, della calma e del senso di sé, solo per arricchirsi. E l’ho visto accadere ovunque. Se guardi più da vicino, è difficile vedere qualcosa di diverso accadere nel mondo: gente che fa soldi facendo del male ad altra gente. È molto triste, ma più che darmi un senso di disperazione, mi suscita rabbia, un sentimento che ho canalizzato in molte di queste canzoni».

Dolore, bellezza e verità, come interagiscono questi tre concetti nel disco?
«Ah, la sacra trinità! C’è un filo centrale che riguarda la ricerca della verità e ancor più il concetto difettoso di verità. In fin dei conti, qual è il senso dello scoprire qualcosa di vero, del portarlo alla gente? Il dolore è l’unica verità che esista davvero? Il dolore e la bellezza sono due facce della stessa medaglia, credo, sono l’unica cosa su cui possiamo essere tutti d’accordo. Quando vedi qualcosa di bello lo sai, non ci sono dubbi. Perché pensiamo che l’oceano sia meraviglioso? Non lo sappiamo, però è così. Perché il fuoco brucia? Non importa, lo fa. L’idea che la verità è semplice, ma inconoscibile è un tema centrale dell’album».

Per questo nel disco ci sono diverse coppie di brani che creano un dualismo (“You Never Know”/“Got It Wrong” o “Learn How To Lose: Act 1”/“Learn How To Lose: Conclusion”), quando una sorta di verità sembra quasi affermarsi, arriva qualcosa che la mette in dubbio. Più che trovare la verità ti importa la sua ricerca?
«Sì, la ricerca è infinitamente più appagante della scoperta della verità. È questa la cosa difficile, no? Se non vuoi disperatamente trovare la verità, non ti lancerai mai nel viaggio, ma se la trovi, il viaggio finisce. È una delle condanne dell’essere umano che mi affascina».

La canzone dell’album alla quale sei più legato al momento?
«Cambia spesso, ma “Got It Wrong” mi è molto cara. Credo che sia una canzone molto dolce a proposito di qualcosa rispetto a cui non mi sono sempre sentito così dolce. Mi piace l’approccio che adotta il protagonista della canzone. Cosa succederebbe se tutti avessero ragione? In che cosa mi sbaglio nel credere che abbiano tutti torto? Io vivo senza rete di sicurezza, non ho un sistema di credenze e spesso mi sono risentito per quelle che mi sono state presentate, le ho rifiutate come se fossero un unguento economico per un problema irrisolvibile. Però, mi è piaciuto un approccio più gentile nell’esplorare le possibilità. Ovviamente c’è scetticismo al cuore del sentimento di quella canzone, ma è un genere di scetticismo dolce, il che è una cosa nuova per me».

Raccontaci il suono di questo lavoro, rispetto al precedente sembra più sperimentale e stratificato, capace di toccare gli estremi della rarefazione e della pienezza. In che direzione hai spinto il tuo sound questa volta?
«Ho impiegato così tanto tempo nel creare la texture sonora di quest’album. Mi sono concentrato meno sui riff o le parti e di più sui paesaggi sonori e credo che questo gli conferisca quel suono pensieroso, indagatore. Ha una precisa qualità, ma non è molto squadrato. Ho cercato di fare in modo che ogni canzone incarnasse appieno il suo panorama sonoro prima di procedere verso la sezione successiva ed ero molto focalizzato sulle emozioni che la musica faceva emergere, piuttosto che trattare la musica come una vetrina per il testo o le melodie».

Sei uscito anche con diversi visual, perché era importante per te dare una veste visiva a questi brani e in che modo li hai vestiti?
«Volevo creare un mondo che giocasse con l’idea della rappresentazione interiore ed esteriore di noi stessi e del livello fino al quale possiamo controllare la nostra immagine e la nostra identità. Molti dei video sono stati girati in uno studio tradizionale, che molto spesso viene usato a LA per creare l’illusione di qualcosa di imponente, uno spettacolo, ma ho usato quegli spazi senza artificio, puoi vedere le luci, le attrezzature, la gente che lavora dietro le quinte. E poi ho creato un sacco di visualizzatori nel mio giardino nei canyon di LA con uno sfondo chiaro, che rappresenta la sottile patina tra realtà e rappresentazione. Non avevo mai pensato così tanto all’aspetto visual, ma ero circondato da così tanti visual artist di talento, che mi hanno ispirato a capire come potevo estendere la storia del disco attraverso il medium visivo, piuttosto che fare semplicemente una clip musicale, che è ciò che si aspettano che tu faccia. È stato un gran lavoro, ma molto gratificante».

La vita è un luogo insidioso, pieno di dolore e oggi l’umanità è davvero ridotta in brandelli. Quest’album, con tutte le sue domande irrisolte, però non trascura di lasciare un barlume di speranza. Tu in cosa lo hai rintracciato?
«Ognuno di noi ha la risposta dentro di sé, è solo sepolta molto in profondità ed è molto poco l’incoraggiamento che riceviamo ad andare a scavare. La gente dice: “No no, accumula ancora e ancora di più e seppelliscilo ancora più in profondità”. Io cerco di contrastare tutto questo dicendo: “Tu hai tutta la bellezza da cercare dentro di te, devi solo smettere di oscurarla”.
…e poi volevo anche dirvi quanto sono eccitato di fare quest’intervista per un magazine italiano. Ho vissuto a Ferrara per cinque mesi quando ero all’università e mi piace tanto parlare italiano, anche se il mio italiano è ad un livello di un ragazzino. Non posso esprimere concetti complessi in italiano, ma voleva solo dire grazie in italiano!».

Geographer racconta il nuovo album “A Mirror Brightly”
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