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Editoriali

Michelangelo Vood racconta il suo album d’esordio “Non c’è più tempo”

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Michelangelo Vood

“Non c’è più tempo”, si intitola così l’album d’esordio di Michelangelo Vood. Dieci tracce, disponibili su tutte le piattaforme digitali, frutto di un songwriting personale, tra indie rock, folk e pop, intimo, ma al contempo universale, delicato e prorompente nella sua urgenza, perché a 30 anni, no, “Non c’è più tempo” o, almeno, così sembra. Eppure, anticipato dai singoli “Scemo”, “Due morsi” e “2000 anni”, questo primo lavoro del cantautore lucano, classe ’91, oggi di stanza a Milano, è il punto di approdo di un percorso fatto di piccole conquiste, mattoni pazientemente messi uno dopo l’altro, dal primo singolo autoprodotto “Ruggine” (2019), passando, lo stesso anno, attraverso la vittoria del concorso per autori Genova per voi, all’EP di debutto “Rio Nero”, ai singoli “Atollo”, per cui è stato scelto, nel 2020, come Artista Just Discovered da MTV New Generation e “Campo minato”, con cui ha partecipato a Dream Hit, il primo social talent italiano, arrivando in finale, fino alla firma, nel 2022 con Carosello Records, con cui ha pubblicato i singoli “Souvenir”, “Sotto il diluvio (nessuno tranne te)”, “I love you” e “Senza mani”. Forte di questo percorso, con cui il 4 giugno sarà sul palco del FringeMi a Nolo, Milano, Michelangelo Vood è tornato per raccontarci cosa significa avere 30 anni oggi. «Questo disco è frutto di un percorso che definirei organico, qualcosa che ha la pretesa di partire dal basso e piano piano, conquista dopo conquista, spera di arrivare a quante più persone possibili», ci ha raccontato. «È una grande conquista per me, un momento di raccolto di tanti sacrifici fatti in questi anni».

“Non c’è più tempo” è una frase che suona quasi come un mantra alla soglia dei 30 anni. Che significato ha nella tua vita, tanto da averla scelta per intitolare il tuo album d’esordio? «A 24 anni sono arrivato a Milano dalla Basilicata e benché avessi sempre fatto musica, all’epoca suonavo in un gruppo punk rock con i mei amici, per varie vicissitudini, avevo deciso di smettere. Mi limitavo a fare un po’ di giornalismo e di altri mestieri, ma c’era qualcosa che non andava, ma non capivo cosa e mi dicevo: la città ti piace, hai una famiglia che ti ama e ti supporta anche per stare lì, hai conosciuto tante persone nuove, fai una cosa che ti piace, cos’è che ti fa stare male al punto di non dormire più di notte?».

Esatto, cosa? «Mancava un pezzo gigante del puzzle: la musica. Allora ho ripreso in mano la chitarra, che avevo portato partendo da casa, ma che, poi, avevo lasciato lì in un angolo a prendere la muffa… grave errore, perché, in realtà, non potevo scappare da questa cosa di scrivere canzoni. Così ho iniziato il progetto che ha portato a questo disco, il mio primo disco, a 32 anni e non vi nascondo che questa cosa dell’età per me è stata un bel macigno per tanto tempo».

Insomma, non c’era più tempo! «Sì, questa frase mi girava in testa., sai, a 32 anni, con un progetto emergente, che fatica anche a stare dentro certi canoni stilistici. Alla fine, l’ho superata pensando che se volevo dire una cosa, la dovevo dire. Che gliene frega alla gente di quanti anni ho?! Al massimo gli interesserà quello che dico, se riesce a immedesimarsi e gli piace quello che faccio. Poi, però, mi sono reso conto che quella frase era molto più generazionale di quanto pensassi e che questo senso di precarietà, che si collega al titolo “Non c’è più tempo”, è molto vicino alla mia generazione, quella dei nati negli anni ’90. Una generazione allevata in maniera amorevole dai suoi genitori, che ingenuamente, in maniera molto tenera, credevano che noi avremmo fatto il loro stesso tipo di vita: arrivare a 30 anni con un lavoro stabile, una casa propria, una famiglia. Siamo stati cresciuti con questi ideali, in maniera bonaria ci è stato venduto questo futuro, ma quando è stato il momento per noi di staccare quel biglietto, ci siamo resi conto che quel futuro non esisteva più, per tanti motivi, sociali, economici, tecnologici. Questa roba ci ha tagliato le gambe ed è il motivo per cui siamo una generazione che, più di tutto, teme il fallimento».

È vero, ma questo senso di fallimento, il caos, la mancanza di certezze, alla fine, possono rappresentare anche un’opportunità? «Penso di sì, il problema è non farsi sovrastare. Come canto nella canzone “Non c’è più tempo”: Tu corri, ma io resto qua. Bisogna mantenere la lucidità e non è facile, soprattutto se vivi in una metropoli, dove sei in un flusso apparentemente inarrestabile. Riuscire a fermare il tempo, metaforicamente, significa andare più a fondo, capire veramente chi sei. Se mi chiedi alla soglia dei 30 anni chi sono, però, io non lo so, non ti so rispondere e, alla fine, me ne faccio una colpa».

Così in questo disco hai infilato tutte le tue paure, le pare, le emozioni, le amicizie, gli amori, i sogni, le delusioni, le disillusioni… Scrivere canzoni per te è un modo per respirare e mettere ordine nel disordine del quotidiano? «Le canzoni di questo disco sono una selezione di pezzo che ho scritto in due anni, in sostanza, le più belle. A un certo punto, nel bel mezzo delle classiche paranoie da cantautore – metto questa, tolgo quella, manca qualcosa, ne scrivo un’altra – ho ritrovato questa canzone del 2017, quella che, poi, ha dato il titolo a tutto il disco: “Non c’è più tempo”. Nella sua semplicità, rispetto alle altre, è stata un’illuminazione, perché mi ci rivedevo ancora profondamente e così si è illuminato questo filo rosso, in maniera spontanea e ha preso forma tutto il mosaico. Quindi per rispondere alla tua domanda: sì, assolutamente. Spesso le emozioni che vivo vengono a bussare in ritardo e scrivere è la mia psicanalisi».

Tu sei uno che mette molta cura nei testi. So che hai scritto una tesi sulle poesie di Jim Morrison… «Sì, amo molto la poesia e Jim Morrison. In generale, cerco di realizzare un approccio che dia peso alle parole. Quando mi viene in mente qualcosa me la appunto, scrivo continuamente frasi o riflessioni su quello che capita. La musica nasce in un secondo momento, ma di solito con parole inventate. Quando, poi, sento di avere qualcosa di buono dal punto di vista musicale, vado a riprendere i miei appunti e cerco di tirarne fuori qualcosa di bello. Forse è questo duplice passaggio sulle parole, che rende i miei testi più accurati. Spesso mi incaglio per settimane, ma la cosa mi gasa, mi piace, perché quando sento che è arrivata la parola giusta è una bella sensazione».

Della tua musica, invece, a colpire è la sintesi tra passato e presente del cantautorato italiano e soluzioni più internazionali e contemporanee. Quali sono gli artisti che ti hanno più ispirato a livello stilistico? «Vengo da un gusto molto britannico per la musica, quindi direi tutto quello che passa dai Beatles in giù: Coldplay, Oasis, Robbie Williams, Paolo Nutini. Per quel che riguarda l’Italia, sicuramente, il grande cantautorato di Battisti, Dalla, Baglioni e Cremonini per parlare di roba più contemporanea. Non so se questi miei ascolti effettivamente entrano nella mia musica, ma quello che so è che se un giorno potrò dire di avere fatto un centesimo della musica di questi grandi, sarò soddisfatto».

Prossimi live? «Il 4 giugno sarò a FringeMi a Nolo e poi a breve ne annunciamo altre. Anche su questo mi sento molto benedetto, perché ormai gli spazi fisici per gli artisti emergenti sono ridotti all’osso. Per me, però, portare in giro questo disco live è la cosa più importante, stare sul palco e raccontare le cose guardando le persone negli occhi mi piace tantissimo, sono fatto così».

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