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The Heavy Countdown #145: Beartooth, Light the Torch, Born of Osiris

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Beartooth – Below
Devo ammettere di essermi sbagliata. E dopo l’ascolto di “Below”, non potrei esserne più felice. Con l’uscita di “Disease” (2018) avevo predetto una china in discesa per i Beartooth, con un addomesticamento al limite del pop (punk). Bene, il quarto full-length di Caleb Shomo e soci, è esattamente il contrario, fin dalla copertina. Anche se i refrain super catchy rimangono il maggiore punto di contatto con il passato, i Nostri mostrano il loro lato più cattivo e violento (ma i blast beat di “Devastation” e “Dominate”?), sgasando a folle velocità solo per riprendere il fiato con qualche ritornello killer (“Fed Up”). Zero fronzoli, zero elettronica, qualche riempitivo (“Phantom Pain”, “The Answer”), ma per il resto, se mi è concessa la licenza poetica, “figata” è l’unico termine tecnico che mi venga in mente per descrivere “Below” (con a chiosa di tutto, “The Last Riff”, perfetta nella sua posizione in tracklist).

Scale the Summit – Subjects
Dopo essersi ripresi da un periodo professionale non esattamente felice, e dopo un disco abbastanza regolare (“In a World of Fear”, 2017), il chitarrista e mastermind Chris Letchford decide di fare le cose in grande dando alle stampe il primo album degli Scale the Summit cantato dall’inizio alle fine. E non finisce qui, perché il musicista va a scomodare dei veri pezzi da novanta per arricchire le sue evoluzioni in equilibrio sulle sei corde (e più), da Ross Jennings dagli Haken, passando per Courtney LaPlante degli Spiritbox (di cui sentiremo ancora molto parlare nei mesi a venire). Ma forse gli episodi migliori di “Subjects” sono i brani in cui compaiono vocalist semisconosciuti ai più ma assolutamente da tenere d’occhio (“Don’t Mind Me” con Garrett Garfield e il suo sentore math rock, oppure la conclusiva “Space Cadet” con Eli Cutting). Per farla breve, “Subjects” rappresenta a tutti gli effetti un nuovo inizio per gli Scale the Summit.

Light the Torch – You Will Be the Death of Me
Che la carriera di Howard Jones fuori dai Killswitch Engage sia un gran successo, ci sono ormai pochissimi dubbi da tempo. “You Will Be the Death of Me” rafforza sia la fama dei Light the Torch come band che la già solidissima reputazione di Jones come uno dei talenti migliori della scena metalcore (e non solo). La voce del frontman, carica di pathos, è ovviamente una delle garanzie di questo ultimo lavoro del combo, insieme ai ganci melodici infallibili (“Let Me Fall Apart”, “Wilting in the Light”). La scelta un po’ “cringe” della cover di “Sign Your Name” di Terence Trent D’Arby, insieme a un’inevitabile prevedibilità, sono gli unici difetti di un full-length che dire godibile è poco.

Born of Osiris – Angel or Alien
I Born of Osiris sono tra i paladini del djent, e lo sapevamo da ben prima di “Angel or Alien”. La nuova fatica dei BOO si pone sfrontata come di consueto con la sua indole intricata e malvagia, ma il vero plot twist è l’uso largo e abbondante di elementi elettronici contemporanei (prendete la title track), che magari farà storcere il naso ai fan della prima ora, ma che denota un desiderio di guardare avanti senza farsi troppi scrupoli. Contando anche le aperture melodiche inaspettate incasellate quasi ovunque (“Threat of Your Presence), “Angel or Alien” è un disco che può risultare digeribile anche a chi non mastica pane e djent/progcore tutti i giorni.

Darkthrone – Eternal Hails……
Non sono passati neanche due anni da “Old Star”, ma ai Dakthrone non importa: quando Fenriz e Nocturno Culto decidono che è ora, non ce n’è più per nessuno. Da bravi camaleonti, costantemente a scavare tra le loro radici musicali, cambiando pelle di release in release, con “Eternal Hails……” i due norvegesi si soffermano a indagare con zelo il doom più classico (e le eco settantiane/sabbathiane si sprecano), con pezzi lunghi, lunghissimi, mai e poi mai sotto i sette minuti di running time (“Lost Arcane City of Uppakra” è esemplare nelle sue elucubrazioni sempre più fumose e oscure).

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