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Sami River racconta “Sitcom Triste”: «Un viaggio nel mio mondo in dodici episodi»

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Sami River

Si intitola “Sitcom Triste” l’album d’esordio del giovane cantautore torinese Sami River. Dodici tracce, tra inediti e singoli già pubblicati, che si snodano come gli episodi di una serie tv, sull’onda di sonorità che vanno dall’alt pop al punk rock e una scrittura che, sotto l’orecchiabilità del pop, nasconde un’introspezione mai banale. Frutto di un percorso di composizione durato un anno e nel quale sono confluiti i dialoghi dell’artista con il suo psicoterapeuta, “Sitcom Triste” è un viaggio all’interno di un mondo personale, tra paure e contrasti, piccoli momenti quotidiani sussurrati e grida collettive, speranze e ricordi, una stanza dove si demolisce e si ricostruisce in un loop di soddisfazioni e delusioni. Classe ’97 Sami River, al secolo Pietro Gregori – due ep “KIDDING” e “KIDDING vol.2”, più il singolo “Woody” alle spalle e con cui, dal 2020, ha messo d’accordo pubblico e critica – ha curato musica, testi e produzione di questo suo personalissimo esordio.


Si dice che la musica sia terapia, in questo caso è stata la terapia a diventare musica. Come è avvenuto questo processo?
«Ho iniziato a scrivere il disco in un momento in cui non ero troppo lucido, questo lo posso dire adesso, così ho ripreso un percorso di terapia, che mi ha accompagnato in parallelo a quello che stavo facendo, ma me ne sono accorto solo alla fine. Ogni canzone prende spunto da un momento specifico di questo percorso e di conseguenza ne fa parte. È come se fosse un’autoanalisi, quindi, sì, è stato terapeutico, infatti l’intro, “Sigla”, è un dialogo con lo psicoterapeuta, in cui non sono troppo sicuro di volermi aprire e nell’outro, “Cerotti”, faccio un punto di tutto quello che è stato questo lungo periodo, che ho raccontato all’interno dell’album».


“Sitcom Triste”: il titolo suona quasi ossimorico. Perché hai voluto intitolare così quest’album d’esordio?
«Di base sono un grande appassionato di sitcom, in particolare di “Scrubs”, che per me è stata una serie formativa, ha avuto lo stesso ruolo che ha avuto questo disco per me, formativo e anche terapeutico. Diciamo che sono sempre stato affascinato da quel mondo, ma ho anche sempre pensato che il rischio è che, togliendo le risate finte alle sitcom, poi nessuno rida realmente alle battute e l’ho trovata un’analogia abbastanza stretta con il periodo storico in cui viviamo, dove siamo tutti spettatori della vita degli altri e rinunciamo a essere protagonisti della nostra. “Sitcom”, poi, anche perché mentre scrivevo questo album, mi sono sentito dentro una serie tv, visto che ho dovuto affrontare vari step, come in degli episodi, in cui c’è un filo conduttore, ma ogni situazione è a sé. “Triste”, perché ho voluto togliere la risata».


Per questo sei truccato da clown in copertina?
«Sì, il clown è la metafora di tutto questo, un viso truccato di risate, ma poi non sai mai se un pagliaccio ride veramente o no. La trovo una figura molto triste».


Nel disco torna spesso il concetto di contraddizione, di dualismo. Che valore ha per te?
«È importante per vari aspetti. Nell’album questo gioco di contrasti era quello che volevo mantenere in tutte le canzoni, lanciando dei sound molto allegri, movimentati e bilanciandoli con altri tristi nel corso della scaletta, che credo sia molto bilanciata. Poi, ci sono aspetti testuali, la parola ridere e la parola piangere compaiono in tutte le canzoni. Nella vita la contraddizione mi riguarda abbastanza, perché sono una persona molto impulsiva, tendo molto a contraddirmi e nell’album ho trattato anche il tema del bipolarismo».


Una questione che ti riguarda in prima persona?
«Sono onesto nel dire che mi era stata fatta una visita molto tempo fa, in cui era stato detto che avevo un accenno di bipolarismo, ma non ho mai approfondito, non tanto per paura di affrontare la cosa, ma perché temevo che potesse condizionarmi nella quotidianità. Poi ho iniziato un percorso di terapia e adesso sto bene, sono molto tranquillo, credo di avere trovato un equilibrio e credo di avere accettato quella parte di me, se è così, ma non sento neanche di averne bisogno, so come funziono e in questo momento lo sto gestendo bene».


Qual è stata la canzone dell’album più difficile da guardare in faccia?
«Sicuramente “Cerotti”. È stato un pezzo che ho scritto quasi in automatico e già mentre lo registravo sentivo che era qualcosa di diverso, perché è un pezzo che tocca dei tasti difficili, profondi. Per questo ho voluto tenerlo per ultimo, perché è una presa di coscienza e inaspettatamente è anche uno dei due pezzi più ascoltati dell’album. Subito dopo, per lo stesso discorso, ti direi “Baggen”».


Autore, compositore e produttore, quest’album è assolutamente personale anche nella musica. Ci racconti che suono hai ricercato per queste 12 canzoni?
«Avevo idea della macroarea all’interno della quale volevo operare, ma non sapevo che fine avrebbe fatto il progetto, quindi è stato tutto abbastanza automatico. Come hai detto ho messo mano su tutte le produzioni del disco, ma sono stato affiancato anche da altri produttori, perché volevo un punto di vista esterno che mi condizionasse, per far sì di non ripetermi, quello è il limite del lavorare da soli sia in fase di scrittura, che di produzione. La costante del disco fa riferimento al mio background, indie rock e britpop anni ’90, Radiohead, Oasis, ma potrei citare anche band dei primi 2000, che poi sono il motivo per cui mi sono avvicinato alla musica e ho iniziato a suonare la chitarra, Green Day, Sum 41, tutto quel pop punk di inizio millennio. Però cerco di non lavorare troppo a reference, perché vorrei che quello che faccio, almeno per me, fosse senza tempo. Poi, chiaro, tutto quello che dicevo mi ha influenzato indirettamente, così come tanta musica contemporanea, che alla fine fa riferimento allo stesso background al quale attingo io».

Live?
«Ci stiamo lavorando».

Cinzia Meroni

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