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Editoriali

Good luck! Una retrospettiva su underscores, parte due: Wallsocket

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underscores Dan Franco

Vi ricordate quando nella prima parte si discuteva delle textures un po’ troppo orientate ad un pubblico “zoomer”, nella musica di underscores? Volente o nolente, è una reazione spontanea al passare dei tempi. Siamo cresciuti con una ondata di edm super digitalizzata a popolare il mainstream, cosa che ovviamente non si può dire delle analogiche generazioni passate. Personalmente sono nato con attorno persone senza particolare attaccamento alla musica in generale. Quindi, prima di scoprire Queen 1 ed iniziare a formare quello che sarebbe diventato il mio percorso di emancipazione musicale, si ascoltava la radio. E giù di Papete, I’m Blue da ba dee da ba da e di qualsiasi cosa facesse Guetta prima di diventare il producer più fastidioso ancora in vita. Per ragioni legali sto scherzando.

Forse è da qui che giunge l’attaccamento di me e coetanei a questa scena che per amore della semplicità chiameremo ancora hyperpop. Alla fine, è la naturale evoluzione di un qualcosa di fortemente nostalgico. È il motivo per cui ci si trova ad etichettare gruppi come Greta Van Fleet o gli ormai ingiustamente martoriati Måneskin come CLASSIC rock. La musica nasce contestualizzata o al periodo in cui si trova, o al periodo a cui fa il verso. Ma, sempre per riprendere l’articolo precedente, le gambe di un musicista vengono sfortunatamente tagliate quando il target è limitato demograficamente. Questo è uno dei grattacapi più tosti da risolvere come artista emergente e sono convinto che underscores, alias di April Harper Grey, lo abbia internalizzato.

Ciò che mi porta a questa convinzione è l’aura che circonda tutto ciò che riguarda Wallsocket, l’ultimo lavoro in full-length della musicista statunitense. E non sto parlando solo dell’aspetto compositivo del disco o della sua produzione. Tutto il concept è studiato alla perfezione e spazia tra testi, immagini, arg (alternate reality games) tra cui siti web e numeri di telefono, e persino oggetti nascosti nel mondo reale. Cos’è dunque Wallsocket? Wallsocket è una città fittizia ipoteticamente situata in Michigan. All’annuncio del titolo dell’album, molti fan si sono fiondati sull’internet a cercare notizie su questa presunta cittadina, alcuni di loro convinti della sua effettiva esistenza. I risultati della ricerca erano siti come wallsocketgov.com e momsofwallsocket.com. In molti di essi si trovavano informazioni sul concept del disco mascherate come chiacchiere di paese. Ovviamente era tutto volto a creare interesse per l’eventuale rilascio del progetto, ma quanto è rinfrescante vedere questo compito mondano svolto in modo così creativo. Anche questi dettagli fanno grande un’artista. Perché “singolo-intervista-ripeti-rilascia il disco” bene o male lo sanno fare tutti quelli che l’industria la bazzicano da un po’. Ah, i siti sono ancora up, quindi se ad articolo finito il progetto vi ispira, spulciateveli perché c’è del genio.

Ovviamente il world-building è bello ma alla fine quello che resta all’ascoltatore è la musica. Quello che succede in questa cittadina, April lo descrive nei testi di questi 52 e rotti minuti di folk/pop/indie/rock e chi più ne ha più ne metta. Il disco si apre con Cops and Robbers, che come anticipavo nella prima parte fu anche il primo singolo ad essere rilasciato. Il pezzo è una mina, forse un po’ fuorviante come primo singolo ma per un album così vario era effettivamente difficile trovare una canzone che lo rappresentasse a pieno. Anche qui, come in Fishmonger, la scelta è stata di aprire le danze con un pezzo molto abrasivo, di scuola pop punk. Salta subito all’orecchio la produzione ancora una volta pristina del prodotto, e la voglia di sperimentare con composizioni più strane come succede nel bridge/solo. Tematicamente, parla di una rapina interna alla banca di Wallsocket, narrata dall’impiegato rapinatore. Mentre la cittadina cerca di riprendersi dalla notizia, facciamo la conoscenza di tre ragazze in Locals (Girls like us). Qui il songwriting di April raggiunge un picco. È un pezzo pop che sa sia di vecchio che di nuovo, con una marea di idee compositive originalissime. Ogni frase cantata è più catchy della precedente, e quel maledetto ritornello crea assuefazione. Col senno di poi avrei evitato 2 speciali sull’argomento underscores, bastava un link a questa canzone per spiegarne la proposta artistica. Duhhhhhhhhhhhhhhhhh (si, ho dovuto contare le h) è un pezzo più canonico, una ballata folk pop in cui le batterie bit-crushate la fanno da padrona. Anche qui, ritornelli da impazzire per toglierseli dalla testa, oltre ad un interessantissimo assolo di armonica. Faccio la scelta deliberata di evitare lo spiegone sulla trama di ogni canzone per il bene di tutti, mio in primis. Poi odio gli spoiler.

Già da questo trittico iniziale si evince questo tentativo di cui parlavo all’inizio di rompere il muro della contestualizzazione demografica. Il livello è chiaramente più maturo e come influenze, percepite e citate, sembra esserci stato un dietrofront generazionale. Beck, Lucinda Williams e Jack White sono alcuni dei nomi fatti da April, quindi è confermato: si può avere una fase folk/country anche a 23 anni. Ovvio, le textures sono sempre sfacciatamente moderne, non aspettatevi American IV: The Man Comes Around come suoni ed intensità esecutiva. Puoi tirare via l’artista dall’hyperpop, ma non l’hyperpop dall’artista. E quindi giù di sample di Dance Dance Revolution, il videogioco arcade, che fanno da sezione ritmica in You don’t even know who I am. Letteralmente, la sezione ritmica del pezzo è formata da 3 o frasi martellanti che si ripetono per 4 minuti. Personalmente non avevo mai ascoltato nulla del genere. Sopra a questo cacofonico muro di voci si stende una ballata solo basso e cantato davvero ben scritta, che lascia il posto a Johnny Johnny Johnny. Non lasciatevi fregare dalla natura dance pop della canzone, il testo è devastante. Si parla di problemi esasperati dall’avvento di internet, in un album figlio dell’internet. Comunque fino a qui il livello è stellare.

Shoot to kill, kill your Darling e la sua postilla Horror movie soundtrack sono il primo, e forse unico mini scivolone del progetto. È da tenere in conto che in quasi un’ora di materiale non tutti i pezzi possono avere la stessa intensità o freschezza. Detto ciò, sono comunque due canzoni ben scritte e tematicamente creative, vittime forse di una durata un filo esagerata. Shoot to kill, kill your Darling nello specifico offre troppo poco a livello di variazioni compositive per giustificare 5 minuti di runtime. Che comunque, se il punto più basso del tuo disco è di questa qualità allora stai facendo qualcosa di dannatamente giusto. L’album ritorna subito sulle sue tracce con Old money bitch ed il suo banjo, cappello di paglia e ramoscello in bocca. So che enunciare una melodia tramite “la, la, la” è un trucco ormai abusato ma qua funziona talmente bene che le viene unanimemente concesso.

Da qui inizia la parte un po’ più strana del disco, quella un po’ più prog se così si può dire. La successiva Geez louise è infatti una composizione mastodontica di 7 minuti e mezzo circa che in linea di massima si divide in tre parti. All’inizio ci troviamo davanti a dell’hardcore punk elettronico molto grezzo ed ispirato. Decisamente l’idea più cattiva dal punto di vista sonoro a finire in una traccia di underscores. La critica alle usanze religiose che dettano la vita in questi paesini rurali (non solo statunitensi, ahimè) e la voglia di uscirne calzano a pennello su una strumentale così abrasiva. Strumentale che dopo qualche minuto prende una curva ad L e passa a del country vecchia scuola. La transizione è spaventosamente riuscita ed apre le porte a quella che sarà poi la svolta finale con un outro ad alto impatto emotivo. Decisamente una delle mie tracce preferite di tutto il progetto. Seventyseven dog years invece ha questa capacità di sfoggiare riff di chitarra che starebbero bene in un pezzo midwest emo così come in una ballata country. In generale il guitar work di questo pezzo è eccezionale. Uncanny long arms è invece una delle tracce che aspettavo con più trepidazione vista la presenza di Jane Remover come guest (ascoltatevi Jane Remover che è una visionaria). In pieno stile Remover, la canzone è parecchio strana, difficile da digerire a primo ascolto. Un sacco di glitch, una scelta di accordi davvero particolare e una produzione esagerata in tutto sono croce e delizia del pezzo. Comunque non ci mette troppi ascolti a crescere e rivelarsi un altro dei punti alti del disco. Carino il callback finale alla demo di “Kinko’s…”, uno dei classici del catalogo underscores.

Good luck final girl chiude non solo Wallsocket, ma anche questa retrospettiva. Lo fa con una ballad folk acustica, chitarra e voce come il genere comanda. E con un minuto di distorsioni e manipolazioni alla fine. Anche questo lo comanda il genere direi. C’è un senso di attesa negli istanti conclusivi del progetto, come se fosse l’inizio di qualcosa più che la fine. Che per quasi 53 minuti di musica è un ottimo complimento. Non c’è molto altro da aggiungere su Wallsocket, la critica si è espressa già in maniera più che positiva ed ogni tanto la critica ci azzecca pure. È un capolavoro moderno, una pop opera di quelle che ne escono una su un milione. Su underscores invece sono sicuro che di cose da dire ce ne saranno ancora moltissime in futuro. Magari “Hyperpop legend in the making” è riduttivo, ma il sentimento è più che condiviso, e spero davvero che in qualche modo sia lei che la sua scena di appartenenza possano trovare un pubblico quanto più vasto possibile.

PS. April ha un paio di side-projects a cui vale la pena dare un orecchio anche solo per curiosità: il collettivo di musica elettronica Six Impala ed il casino divertentissimo che è Milkfish. Soundcloud è un posto meraviglioso!

Foto Dan Franco

Matteo Pastori

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