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Editoriali

I Santi Francesi raccontano “L’amore in bocca”: «Un mistero sepolto sotto strati di allegoria»

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Dalla vittoria di “X Factor”, nel 2022, a quella di quest’anno a Sanremo Giovani, che li ha proiettai direttamente all’Ariston tra i Big: i Santi Francesi e “L’amore in bocca” stanno cavalcando l’onda grossa di Sanremo. Scritto da Alessandro De Santis (voce, chitarra, ukulele) e Cecilia Del Bono e composto e prodotto da Mario Francese (producer, tastiere, synth, basso) e Antonio Filippelli, il brano, presentato a tarda notte nella prima serata della kermesse e disponibile su tutte le piattaforme streaming, è una raffinata ballad electro pop.

Un sound personale, che è già marchio di fabbrica per il duo di Ivrea, arrivato al grande pubblico con la vittoria di “X Factor” e che, oggi, conta all’attivo l’album autoprodotto nel 2019 “Tutti i manifesti”, la vittoria a Musicultura nel 2021 con il brano “Giovani Favolosi”, scritto in collaborazione con Dade dei Linea 77, l’ep del 2022 “In Fieri”, una serie di singoli di successo, tra cui “La Noia” e “Occhi Tristi”, con cui hanno vinto Sanremo Giovani, e una tonnellata di live, anche in apertura di nomi come FASK, Blanco o Madame.

All’Ariston, però, non ci erano mai stati e in attesa di tornarci, anche con Skin sulle note di “Hallelujah” di Leonard Cohen, scelta per la serata delle cover, ci hanno raccontato così il loro Sanremo: «È incredibile collaborare con così tanti musicisti, vederli suonare le note che tu hai scritto in studio. L’Ariston? Ci è sembrato molto più piccolo di come lo immaginavamo, una dimensione intima nuova, ma che ci piace parecchio».

Dalla vittoria di “X Factor” a Sanremo tra i Big. Come siete maturati nell’ultimo anno?
«È stato un anno all’insegna dei live e delle rivelazioni. Abbiamo capito cosa vogliamo essere e cosa non vogliamo essere come artisti. La vittoria a “X Factor”, finora, è stata la cosa più importante della nostra carriera, l’esperienza che ci ha dato modo di vivere con la musica. Siamo cresciuti dal punto di vista emotivo, abbiamo allontanato un po’ l’arrivismo dal nostro progetto, già da anni abbiamo smesso di avere fretta per quanto riguarda questo mestiere e abbiamo fatto un patto con la verità, perché crediamo che essere più veri, dritti e sinceri possibile sia l’unico modo per garantirsi di esistere in questo mondo, in qualsiasi misura, se sei te stesso, portai sempre difenderti».

Con che mood affrontate questa avventura sanremese?
«Il solito con cui abbiamo affrontato ogni gara: pochissime aspettative e grande concentrazione sull’esibizione. Dopo l’ansia di ottenere il risultato a Sanremo Giovani, ora abbiamo molto poco da perdere, il nostro intento è scoprire se in giro per l’Italia ci sono persone che hanno voglia di ascoltarci».

Cosa lega “Occhi Tristi” e “L’amore in bocca”?
«Partono entrambe da un grande sentimento di insicurezza e paura. “Occhi tristi”, però, guarda al futuro con più fiducia, con tante promesse, in primis quella di impegnarsi a costruire qualcosa con una persona, senza abbandonarsi al fascino delle relazioni tossiche, che vanno molto di moda nella musica italiana da qualche anno a questa parte, una cosa che non ci piace molto. Insieme a noi Santi Francesi, “L’amore in bocca” è scritta con una ragazza, Cecilia Del Bono, e si sente che c’è una penna femminile nel pezzo. Per noi stessi questa canzone rimane una sorta di mistero, perché non ci siamo mai spiegati di cosa stavamo parlando davvero e a chi stavamo rivolgendo quelle parole, eppure in questo pezzo ci ritroviamo».

È vero che il titolo è nato da un errore?
«Sì, doveva essere “L’amaro in bocca”, ma il correttore ha deciso che diventasse “L’amore in bocca”. Quando ad agosto ci siamo trovati per la prima volta con Cecilia, abbiamo deciso di lavorare attorno a questo concetto, senza pretese, figuriamoci Sanremo! Così è nato questo pezzo, che è costruito prettamente di immagini, suggestioni, sensazioni: il modo migliore per lasciare carta bianca a chi ascolta».

Un tratto caratteristico della vostra scrittura?
«Sì, crediamo fermamente in una forma di scrittura che non sia giusta, ma che sia singolare, la direzione nella quale stiamo lavorando è quella di creare una sorta di stile a livello espressivo, che trasporti chi ascolta in un luogo con una parola, un’immagine».

Il pezzo è un crescendo travolgente.
«Parte come una ballad, ma poi abbiamo avuto la necessità di farlo esplodere nella seconda strofa, dove si apre un ambiente un po’ più elettronico, forse per evidenziare questo ossimoro tra le parole dolci e l’ambiente sonoro più aggressivo. Il concetto che ci piace è sempre quello di spezzare l’aspettativa. Negli ultimi anni c’è tanto la tendenza a considerare la musica come qualcosa di ricreativo, confortevole, confortante, dimenticandoci che è una forma d’arte ed ha il diritto di spostarti, di darti fastidio e non è sbagliato se succede. La nostra musica non ti deve consolare, anzi».

Per la serata delle cover avete scelto “Halleluja” di Leonard Cohen. Vi piace complicarvi la vita?
«Sì, ma tra le tante cover che ne sono state fatte ancora non avevamo sentito una versione del pezzo per come noi lo immaginiamo, che andasse a calcare altri argomenti del brano e altre atmosfere sonore. È un brano pieno di contraddizioni, sottovalutato e spesso non capito, un brano vicino a Dio come concetto, ma se si va a leggere il testo è un’ode alla vita terrena, carnale, a ciò che è prettamente umano. Questo è il motivo per cui l’abbiamo scelta, poi ci abbiamo lavorato, cercando di denudarlo il più possibile, per poi aggiungere una variabile un po’ più rabbiosa e gridata rispetto all’originale».

La canterete con Skin!
«Eravamo nel panico, non trovavamo nessuno che volesse fare questa cosa con noi. Poi, all’ultimo, abbiamo chiesto a Skin e lei ha accettato! Siamo strafelici, anche perché, dopo il panico iniziale per il brano, ha ascoltato quello che avevamo fatto e ha accettato, senza chiederci di cambiare niente. Ha detto che non aveva mai sentito una versione come la nostra, si è entusiasmata e quindi succederà questa pazzia».

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