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TAPIR! in concerto all’Arci Bellezza di Milano
Tra poche settimane giungerà il catartico momento in cui magazine e siti specializzati di tutto il mondo stileranno le agognate classifiche di fine anno con i migliori album del 2024. In una ipoteticamente destinata ai migliori debut album, quello dei Tapir!, uscito subito ad inizio anno, svetterebbe sicuramente tra le primissime posizioni se non alla prima. Non sappiamo se il loro esordio costituito da 3 ep di 4 brani ciascuno, li possa già decretare come nuova cult band indie-folk, al pari di quella Beta Band che nel 1999 si presentò al mondo col medesimo concept musicale suscitando elogi dalla critica di settore ed arrivando perfino ad essere inseriti nella trasposizione cinematografica di Alta Fedeltà di Nick Hornby.
Immaginiamo oggi un John Cusack titolare di un qualsiasi fatiscente Championship Vinyl del globo che voglia vendere 5 copie di The Pilgrim, Their God and the King of My Decrepit Mountain, facendo suonare per 1 minuto circa una penetrante ed eterea Broken Ark. Riuscendo perfettamente nell’intento ! Voli spazio-temporali a parte, l’occasione quindi di poter assistere al loro primo live ieri sera all’Arci Bellezza di Milano, non avendo presenziato all’edizione dell’Ypsigrock di quest’estate, è risultata per il sottoscritto imperdibile. Occasione per capire se quella grazia e sensibilità magnificente rivelata su disco sia in grado di penetrare in profondità anche nella proposta on stage
I nostri ragazzi londinesi si presentano alle 21.45 in punto sul palco sulle note di una spumeggiante (che andrà ironicamente in contrasto con l’attitudine minimal e lo-fi portata dai Tapir! sul palco) I’m Every Woman di Chaka Khan.
Di fronte ad un pubblico composto da un paio di centinaia di persone che si dimostreranno ossequiosamente attente per l’intera serata, ritroviamo le facce pulite e innocenti di quelli che potrebbero essere stati benissimo i compagni di liceo dotati musicalmente che si affacciano alla prima prova pubblica e non di certo quelle di pop star o rock star affermate. Eccezione unica è per il deus ex machina, Ike Gray (voce, chitarra e leader del collettivo) la cui figura ermeticamente concentrata ricorda un giovane Kurt Vile all’alba del suo progetto artistico.
Quello che risalta fin dal primo brano presentato, Debt to the World (singolo del 2023 non presente nell’album d’esordio) è una totale inversione di rotta, rispetto ai video che ho potuto visionato e ai commenti letti in questi mesi riguardo le loro performance, in cui viene rappresentata una vera e propria fusione artistica/musicale/narrativa tra il sound proposto e elementi quali dipinti, scenografie, costumi e cortometraggi al fine di far immergere maggiormente il fruitore nel mondo misterioso e onirico raccontato dai loro testi.
Questa sera infatti, possiamo pensare forse a causa delle dimensioni ristrette del palco che non permettono tale connubio, la scelta è di mettere al centro esclusivamente la raffinatezza e l’intimità di quel sound che in una gamma di bellezza sonora pesca e rimanda ai vari Nick Drake, ai Lambchop più malinconici, ai Wilco meno elettrici, al Bon Iver acustico dei primi album, all’Ellioth Smith di Either/or, ai vocalizi catartici di Jeff Buckley e alle melodie killer McCartneyane.
Qualvolta però giungono ad impreziosire e a trasmettere scossoni necessari alcune interessanti e mai inopportune linee ritmiche basso/batterie dei 2 ottimi Ronnie Longfellow e Wilfred Catwright che hanno la capacità di portare il tappeto musicale ai confini di territori prog e jazzati.
La voce particolarissima e ricca di sfumature di Ike, a metà tra Thom Yorke e Neil Young, riesce a trovare la sua perfezione a partire dal quarto brano, ovvero The Nether, in cui la titubanza iniziale viene finalmente smorzata. Alla sinistra di Ike troviamo una nuova presenza, presentata come Francesca, che sostituisce (temporaneamente?) Emily Hubbard (synth, cornetta e voce) facendo però fare però un passo indietro alla band in termini di spessore e imprevedibilità.
Tra le canzoni proposte in una setlist composta ovviamente da solo una dozzina di brani si eleveranno per intensità e perfezione performativa/sonora Gymnopédie di assoluta matrice Americana, una My God suadente in cui il finale è impreziosito da un dolce violoncello che accompagna il gorgheggio vocale ottimo di Gray e alcuni ottimi e ispitati inediti tra cui Nail in a Wooden Trunk (Wilconiana fino al midollo) che fanno ben sperare per l’opera n. 2 che a questo punto aspettiamo a breve e con ansia.
Alle 22.35 quando lo show sembra giunto al termine, l’entusiasmo del pubblico costringe i 6 a ritornare sul palco con un certo visibile imbarazzo per un ultimo giro di giostra e la scelta ricade su una Mountain Song che per un attimo sembra avere il potere di farci fluttuare in maniera evanescente per poi farci piombare improvvisamente alla realtà con un assolo poderoso di batteria che fa calare il sipario su quella che è stata una piacevolissima serata.
Sono giovani i Tapir! Devono ovviamente ancora macinare chilometri, amalgamare e allineare la bravura dei vari componenti e fare la loro esperienza. Partono però da punti di riferimento e capacità compositive che sono importanti. Riuscire a ripetersi con un secondo album all’altezza del primo sarebbe già un’ottima conferma.
E broken Ark? Non ce l’hanno fatta ascoltare!!! Ma per quella ci penserà John Cusack!
SETLIST
DEBT TO THE WORLD
GRASSY KNOLL
SWALLOW
THE NETHER
UNTITLED
HALLELUJAH BRUV
GYMNOPEDIE
MY GOD
EIDOLON
CLOTHING LINE
NAIL IN A WOODEN TRUNK
I’D UNDERSTAND
IN THE END A FRIEND IS JUST A FRIEND
MOUNTAIN SONG
Testo e foto di Stefano Quattri