Bologna. Ad attendere Thurston Moore, il 3 novembre 2014, è un Teatro Antoniano con tutti i posti a sedere occupati, file di fan nostalgici della gioventù sonica con giacche scure, scarpe in pelle e qualche catenina che spunta dalla tasca, frammisti ad altri elementi più giovani che difficilmente hanno mai assistito a un live della formazione di New York. Tutti disposti sulle seggiole con numerazione alfanumerica, assiepati a chiacchierare sui propri argomenti generazionali, che durano più o meno fino a che le luci non si fanno soffuse e la sua figura allampanata fa il suo ingresso sul palco, fogli dei testi alla mano, andando a raccogliere la sua Jaguar da terra.
È accompagnato sulla scena da figure di non proprio secondo piano, che un occhio attento pungolato da un orecchio dedito a un certo ambiente musicale non può far a meno di notare: oltre al frontman dei Sonic Youth ci troviamo di fronte a Steve Shelley, storico batterista del medesimo gruppo, a Deb Googe, bassista dei My Bloody Valentine, e a James Sedwards, chitarrista dei Nought.
Timidi arpeggi gonfiati da riverbero e delay e rumori di fondo aprono la strada a un crescendo strumentale che diviene una sorta di intro del concerto che sfocia, dopo un teatrale secondo di silenzio, nel primo vero pezzo della serata, “Forevermore”: una cavalcata dissonante di undici minuti circa tratta dall’ultimo disco “The best day”, da poche settimane uscito (e qui recensito). Di echi sonici nel brano se ne trovano eccome, e difatti l’ultimo album è stato da più parti definito come un incrocio tra la pregressa esperienza noise di Moore e gli ultimi lavori da solista (in particolare “Demolished thoughts”, uscito nel 2011) di natura più sperimentale e farciti di elementi folk.
Sulla stessa onda è il brano successivo: la travolgente “Speak to the Wild”, traccia d’apertura del nuovo disco e senza alcun dubbio uno dei pezzi migliori prodotti di recente da Moore. È stata eseguita ieri sera in una azzeccata accoppiata Alfa-Omega con il brano che è invece chiamato a chiuderne la tracklist, ossia la pestata “Germs burn”, in cui assoli forsennati, frutto del gusto per l’improvvisazione dell’ultimo Moore, si alternano a una voce che abbaia e coinvolge (tanto che alcuni hanno fatto istintivamente per levarsi dalle sedie, salvo poi cedere alle norme del contesto vigente).
Dopo il blitzkrieg di “Detonation” (non avrebbe potuto scegliere un titolo migliore per un brano tanto spedito e isterico nei tempi e nelle forme) arriva il momento della title-track, “The best day”, brano che forse meglio rappresentare questo essere a metà del nuovo Moore, a metà tra passato e presente: se da un lato abbiamo i riff ipnotici che hanno fatto la storia dei Sonic Youth, dall’altro abbiamo un’influenza bluegrass nei riff d’intermezzo e una sorprendente coda finale dalle sfumature vagamente orientali. Dopo la strumentale “Grace lake” i quattro ci salutano per il rituale rientro nel backstage, in attesa dell’encore.
Le tracce dell’album sono praticamente esaurite, ne resta giusto un paio: sarebbe legittimo a questo punto attendersi una esecuzione per esteso del nuovo lavoro durante il bis, chiamato a gran voce dal pubblico. Ma Moore trova ancora il modo di sorprendere: dopo aver riallacciato il jack alla chitarra e averci chiesto se ci fosse un bar da qualche parte nel teatro (faccia contrita alla nostra risposta negativa: messaggio inferito: non dovrebbe mai accadere di assistere a un concerto senza nulla da bere) ripesca dal proprio archivio solista due brani del 1995 – la clamorosa “Pretty bad” e “Ono soul” – tratti da “Psychic hearts”, che chiudono alla grande un ottima performance di un eccelso musicista.
Fotografie a cura di Mathias Marchioni.