Pink Floyd – The Endless River

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Parlare di “The Endless River” è davvero difficilissimo. Ci sono troppi fattori di cui tener conto. In primo luogo, si tratta con tutta probabilità dell’ultimo album d’inediti dei Pink Floyd, pubblicato a quasi cinquant’anni di distanza dai primi vagiti di uno dei più grandi fenomeni musicali di tutti i tempi (rinchiudere gli autori di “The Piper At The Gates Of Dawn” solo e soltanto nel caravanserraglio del rock sarebbe riduttivo). È inoltre un disco assemblato con materiale proveniente dalle session di “The Division Bell” (1994), il che lo rende ancor più a sé stante rispetto al corso della musica d’inizio Millennio. Molte delle sue tracce sono state scritte e suonate da David Gilmour e Nick Mason assieme al compianto Richard Wright, tanto che l’intera opera potrebbe esser vista anche come un’elegia per il grande tastierista (possiamo persino sentire la sua voce). Salvo l’accorato addio finale, “Louder than Words”, è un LP interamente strumentale, perché anche in “Surfacing” il coro senza parole è utilizzato in tale funzione. Ma, più ancora di tutto quanto sopra elencato, quello che mette terribilmente in crisi chiunque lo ascolti è accorgersi che non poteva essere diverso da quello che è. Necessariamente. Matematicamente.

Quattro lunghe suite, una per lato nell’edizione in doppio vinile, spezzettate in vari brani che simboleggiano altrettanti momenti nella storia della band. Un sound e una produzione quasi caricaturali nell’essere Pink Floyd-iani al 200%. Solenni accordi d’organo, lunghi assoli meditabondi di chitarra, romantici interludi di pianoforte, momenti di pura stasi alternati a qualche sprazzo più movimentato. Sarebbe assolutamente inutile cercare qualcosa di nuovo, di ancora non udito. Sai esattamente cos’aspettarti da ogni singolo solco, compreso il sassofono nel jazz da salotto in penombra di “Anisina”. Diversamente dal passato, però, tutti questi elementi non vanno a costruire qualcosa di realmente compiuto, piuttosto formano un collage oscillante fra anni Sessanta e Novanta. In “It’s What We Do” appare il fantasma di “Wish You Were Here”, le due “Allons-Y” marciano dalle parti di “The Wall”, “Skins” prende addirittura spunto da alcune parti percussive di “A Sacerful Of Secrets”. Le suite stesse non sono affatto omogenee, se non per una tendenza a continue infiltrazioni ambient, ed è forse questa l’unica, infinitesimale novità del testamento del trio, ovvero l’ancor più massiccia presenza di quiescenze sonore.

Ovviamente la stampa (estera) si è già divisa, e le critiche più ricorrenti parlano di “scarsa creatività”, oppure di “scarti da The Division Bell”, e ancora “mancanza di sostanza”. Se l’album è prevedibile, frasi del genere lo sono ancora di più; un po’ come stupirsi di bagnarsi toccando l’acqua. Cos’avrebbero dovuto registrare, i Pink Floyd? Canzoni hip hop con Auto-Tune? Certo, a volte il rischio di scadere in tappezzeria sonora new age è palese (cfr. “Calling”), così come una certa ripetitività di fondo negli intrecci fra la chitarra di Gilmour e le tastiere di Wright. Ma sono tutti difetti risaputi, che dall’addio di Roger Waters non han smesso d’ingigantirsi: se “A Momentary Lapse Of Reason” ne soffriva, il successore faceva ancora peggio. Allora perché non rimpiangere i tempi dell’irripetibile e lancinante parabola con Syd Barrett? No, in realtà “The Endless River” è, probabilmente, il miglior addio possibile per questa formazione. Il fatto di essere quasi completamente strumentale lascia la possibilità di gustare meglio le proverbiali illusioni uditive orchestrate dai britannici… e c’è un calore di fondo, una nostalgia intimamente sentita ben differente dalla freddezza un po’ troppo altera dei due predecessori. E “Louder Than Words” lascia davvero con il magone. È l’ultima parola.

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