Ad un anno esatto di distanza dalla data al Mediolanum Forum di Milano, Peter Gabriel è tornato in Italia per due concerti, il primo dei quali è andato in scena il 20 novembre 2014 al Pala Alpitour di Torino.
Come annunciato da Mr. Gabriel stesso, il concerto si divide in tre parti: “come un pasto“, dice lui. La prima parte, l’antipasto, è una sezione acustica che lo vede al pianoforte, accompagnato dai suoi fidati musicisti, a luci accese. La sua calda voce, purtroppo non supportata da un’acustica adeguata, si contrappone alla poca atmosfera creata da location e illuminazione, ma lo fa con prepotenza e riesce ugualmente a catturare la platea.
Questo nonostante la leggenda del progressive rock si sia presentata sul palco con un gilet che ha poco da invidiare a quello dei pescatori. Il che può essere demotivante se si ripensa al suo glorioso passato come frontman trasformista dei Genesis, anni in cui vestiva i panni del misterioso Watcher of the Skies.
Il set acustico inizia con la presentazione della grande band che Peter Gabriel porta con sé in questo Back To Front Tour 2014. Tra gli altri è presente anche il signor Tony Levin, che per i cultori del rock è un monumento vivente che ha suonato con Yes, Pink Floyd, King Crimson, David Bowie, Dire Straits e John Lennon. A Torino oltretutto si è visto anche pochi mesi fa con il The Crimson ProjeKCt, e gli amanti del prog difficilmente si saranno dimenticati la sua performance. Ecco, sarebbe dunque interessante capire perché Gabriel abbia inizialmente presentato tutto il gruppo eccetto lui, collaboratore di vecchia data e polistrumentista della madonna. Se siete in grado di sciogliere questo dubbio scrivete all’indirizzo umberto.scaramozzino@maperché.boh e dite la vostra (delucidazione fornita da un lettore, svista del redattore).
Chiusa questa parentesi, c’è da dire che il primo set non regala particolari emozioni, si inceppa anche in una stonatura nella prima strofa di “Family Snapshot”. In realtà ad azzoppare la performance è forse la scelta di restare con le luci accese, un espediente che avrebbe funzionato da Dio in un anfiteatro all’aperto, d’estate, al calar del sole. In un palazzetto dello sport non del tutto pieno invece fa perdere un po’ di quella magia che è insista nella magnetica voce del performer.
Nel secondo set, quello elettrico e più energico, si sente tutta la carica rock che in gioventù alimentò il fervore di Peter Gabriel, mentre le influenze soul del suo cantato rendono giustizia al calore del suo timbro. Eppure la sua voce è invecchiata, in questi ultimi due/tre anni in particolar modo, e purtroppo nei registri alti è impossibile non percepirlo.
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Anche quando cala il buio nell’arena, le luci del palco (simili a quelle del tour di fine anni 80) generano qualche perplessità. Difficile gestire lo stage con un impianto così ingombrante, ostruente e quasi arcaico, ma durante “No Self Control”, uno dei migliori pezzi in repertorio (direttamente da “Peter Gabriel” del 1980), i fari manovrati da diversi membri della crew iniziano a roteare intorno al cantante, che cerca di sfuggirgli come fosse sotto l’attacco di uno stormo di corvi, riproducenso un’antica scena dei suoi live. E l’immagine è talmente suggestiva da lasciare senza fiato.
Avvicinandosi al terzo e ultimo set, quello più atteso, la dinamicità dello show si arricchisce. Il suo trotterellare su e giù, reliquia di tempi in cui sul palco era necessaria una bicicletta per permettergli di rincorrere il proprio vigore e la propria genialità, è qualcosa di commovente che tocca il cuore. E con “Why Don’t You Show Yourself” si conclude anche la seconda parte dello show.
Ci siamo, inizia la scaletta integrale di “So”, l’album del 1986 che fu anche il suo più grande successo commerciale. Sulle note della prima traccia, “Bad Rain”, prendo tutti i miei appunti da saputello, le mie piccole critiche presuntuose, le mie battute da quattro soldi, la mia nostalgia dei tempi che non ho vissuto e butto tutto dentro un sacco nero che trascino come un cadavere, sperando che nessuno abbia assistito al misfatto. E mi libero di tutto, nascondo tutto, perché Peter Gabriel è riuscito ancora una volta a toccare le corde giuste e farmi inchinare. Su “Mercy Street”, uno dei brani più emozionanti scritti nella sua pluridecennale carriera, emerge impetuoso tutto il suo genio, mentre canta ad occhi chiusi, sdraiato per terra, con una telecamera che lo scruta dall’alto.
Un corpo che tenta di occludere un’anima creativa e sensibile che riesce ugualmente a farsi strada sul palco, nonostate i limiti, nonostante le imprecisioni, fino a penetrare nel cuore di tutti noi.
Fotografie a cura di Alessandro Bosio.