Quando Caparezza fa un album significa che Caparezza FA UN ALBUM. Non è scontato. Significa, infatti, che l’artista pugliese è uno dei pochi che ancora crede (crede davvero) nel formato-disco. Che si dedica anima e corpo al progetto e si prende il suo tempo per sviluppare un concetto a partire dal quale costruire le tracce. E nonostante la sindrome di massa da deficit di attenzione che ha colpito il mondo intero, riesce con i suoi 70 minuti tondi tondi di musica a catturare le pigre orecchie del popolo italico e piazzarsi al primo posto in classifica. Ma soprattutto, quando Caparezza fa un album significa anche che Caparezza FA MOLTO PIÙ di un semplice album. Non è semplice musica, ma arte. Non nel senso pomposo e pretenzioso del termine, ovviamente. Ma nel senso che spazia tra le discipline – musica, scrittura, cabaret, arti visive – per costruire un insieme che spacchi i culi. L’Arte con la A maiuscola, invece, è il tema portante del disco. Ah, già, il titolo del disco. È “Museica”. Come “musica”. Ma anche come “Museo”, il luogo dove per l’appunto si studia e si ammira l’Arte. E pure come “sei”, dato che si tratta del suo sesto album.
“Museica”, quindi. Un vero e proprio museo, una galleria d’arte che nell’arco di diciannove tracce/sale espositive spazia dai maestri del Rinascimento all’arte contemporanea, citando e traendo ispirazione da artisti, correnti pittoriche e opere celebri, da Michelangelo (“Canzone a metà”, incompiuta come “I Prigioni” del Buonarroti) ai dadaisti (“Comunque vada”), da Van Gogh (“Mica Van Gogh”) al “Quarto Stato” di Giuseppe Pellizza da Volpedo (“Troppo politico”). E che allo stesso modo saltella con disinvoltura – e con una maestria che pochi musicisti si possono permettere – tra un genere e l’altro, dalla ballad “China Town”, dedicata alla passione per la scrittura, alla metallozza “Argenti vive”, in cui Caparezza presta la voce a Filippo Argenti, rivale di Dante Alighieri a cui nella “Divina Commedia” è riservata una fine poco simpatica. E mentre gli artisti citati hanno nel pennello, nello scalpello il proprio strumento d’elezione, Michele Salvemini ha dalla sua la penna, come suggerito proprio da “China Town”. Ricchissimo da un punto di vista musicale, l’album ha però il suo punto di forza nei testi, nei quali Caparezza fa come al solito quello che vuole con le parole, e già solo con le prime rime dell’intro “Canzone all’entrata” trifola il 95% dei rapper italiani prezzemolini che negli ultimi anni sono spuntati come funghi. In coda si chiedono cosa architetti di strano. “Io?! Cosa architetto di strano? Boh, pensavo a Lucia Mondella nel letto che dice “Renzo, Piano!”. Ciao, tutti a casa.
Un momento, un momento. Che questa non vuole essere nemmeno una sviolinata (tipo quella di “Non me lo posso permettere”) a Caparezza. Un difetto a “Museica”, che pure è uno dei dischi italiani dell’anno, glielo possiamo trovare. E sta proprio in quella sua corposità elogiata in apertura. Perché quei 70 minuti tondi tondi potevano essere anche 60, magari sfoltendo i brani meno riusciti come “Figli d’arte”, e arrivavamo alla “Canzone all’uscita” soddisfatti uguale. Ma un paio di brani di troppo sono una costante dei dischi di Michele, uno che di sicuro non è mai a corto di argomenti…
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