The Decemberists – The King Is Dead

Un album dei Decemberists che apra con un pezzo come “Don’t Carry It All”, sicuramente spiazza già dai primi due minuti.

La prima domanda che viene naturale porsi è: “Cos’è successo  alla fantasia?”. Forse ci avevano abituati fin troppo bene: ricordo che quando uscì il video di “Sixteen Military Wives” mi erano sembrati l’alternativa più morbida, oltre che più sbilenca e creativa, agli Shins, e comprando “Picaresque” mi ero sentita Dentro Al Momento, una magia che non riesce quasi mai.Poi sono arrivati i concept, uno dopo l’altro: prima il bellissimo “The Crane Wife” e poi “The Hazards of Love”, rock opera monumentale e barocca, magari anche ridondante ma di sicuro un pungolo nel fianco dell’ascoltatore annoiato. Colin Meloy parla della sua nuova fatica, “The King Is Dead”, come di un album nel quale la ricerca è stata quella della semplicità, e come al solito chiama in causa il vecchio adagio secondo cui fare le cose semplici ed efficaci sia molto più difficile che farle efficaci perché complicate e quindi poco comprensibili.

Quello che però è in discussione, dopo anche solo un ascolto critico, non è l’approccio, logicamente più in vena di semplicità dopo anni di indigestione di strumenti, strumentini, arrangiamenti da musical e compagnia bella, ma la qualità. “The King Is Dead” è l’America allo stato puro, un misto di Crosby,Stills Nash & Young, Springsteen, Dylan, e R.E.M che non si muove di una virgola da tutto quello che da loro è già stato detto. Raccogliere le ispirazioni qua e là nella storia musicale del proprio paese è giustissimo, oltre che molto di moda, in America, negli ultimi tempi (vedi Bright Eyes, Bonnie Prince Billy…) ma dopo tre pezzi con le armonizzazioni dei cori tutte uguali, la batteria che batte monotona e l’armonica sparata a mille ci si inizia ad annoiare parecchio, così tanto da salutare l’unico pezzo in cui l’atmosfera cambia davvero, “January Hymn”, come un capolavoro, nonostante i debiti fin troppo chiari con il songwriting dei Fleet Foxes.

Sicuramente non aiutano la mano di Peter Buck, chiamato a suonare in alcune tracce, che unita alla voce “alla Michael Stipe” di Meloy e all’effetto “Out Of Time” che affiora un po’ dappertutto dagli arrangiamenti finisce per far sembrare molti pezzi (“Calamity Song” su tutte) il parto di una cover band dei R.E.M, più che quello di un gruppo con le credenziali dei Decemberists. Sicuramente non aiutano il confronto con gli album precedenti, come già detto ispirati, e trascinanti,e la voce priva di inventiva e di dinamiche di Gillian Welch, star del country, che appiattisce notevolmente tutti i cori a lei affidati. Sicuramente il risultato è di quelli che deluderanno chiunque creda che nella musica ci sia ancora molto da creare prima di mettersi a raschiare il fondo del barile della semplicità, così, per partito preso, per vedere l’effetto che fa.

Francesca Stella Riva

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