I Papa Roach esordirono col botto – con “Infest” nel 2000 – come decine di altre band in quella scena che ora chiamiamo alternative rock, ma che allora era la continuazione emotiva e tormentata dell’uragano Grunge. Per un gruppo che è sopravissuto ed è arrivato ai giorni nostri, decine e decine sono invece rimasti indietro come archeologici manufatti ricoperti di polvere.
È l’ottavo album della band di Shaddix e soci, il che ci mette di fronte al fatto che hanno trovato una formula per resistere a concorrenza, logorìo del tempo, evoluzione dei fan e degli ascoltatori del genere. Ascoltando “F.E.A.R.” e le sue prime tracce la cosa sembra plausibile e meritata. Il trittico iniziale “Face Everithing And Rise”, “Skeletons” e “Broken As Me”, risulta mantenere l’energico marchio dei Papa Roach riuscendo a suonare fresco all’ascolto. Arrivano poi scontati come l’influenza a gennaio i pezzi da filodiffusione di un centro commerciale, che si protraggono per tutta la parte centrale e fanno scendere in picchiata l’idea di spontaneità iniziale. Se “Falling Apart” è una ballata energica e tutto sommato piacevole, la coppia “Love Me ‘Till It Hurts” e “Never Have To Say Goodbye” fa prudere le mani e sarebbe meglio non avere un primo piano di Jacoby Shaddix davanti agli occhi in quel momento. Speranzosi accogliamo Maria Brink degli In this Moment come ospite in “Gravity” ma il risultato rimane stucchevole, se pur l’orecchiabile motivetto del ritornello potrebbe rimanere impresso per qualche oretta. Il testosterone e la convinzione si rialzano con “War Over Me” e “Warriors”, due tracce dirette che portano l’album ad una conclusione dignitosa.
Il risultato è un lavoro prudente, furbo, a tratti pacchiano. Ci si può affezionare ad una band che esiste solo per dare quello che la gente vuole, senza carattere, senza anima? Il pensiero della notte c’è: nel mondo reale questo album venderà abbastanza per mantenere in vita i Papa Roach fino al prossimo (e speriamo non trascurabile) episodio.
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