Celebrare i Napalm Death per essere stati i creatori del grindcore è troppo poco. In più di trent’anni di carriera la band inglese ha saputo essere molto altro e molto di più. Non solo ha influenzato centinaia di gruppi e cambiato il volto della musica estrema, osando quello che non era mai stato neppure pensato in termini di crossover fra punk e metal. È stata anche in grado di evolversi senza snaturare il proprio stile, sbagliando pochissimi dischi e rimanendo fedele ai suoi ideali musicali e sociali nonostante il trascorrere dei decenni.
“Apex Predator – Easy Meat”, contrariamente al più inusuale “Utilitarian” (2012), è una sorta di omaggio che il quartetto fa a se stesso e alle radici sonore da cui proviene. Ovviamente le ultime esperienze si fanno sentire, tuttavia l’album semplifica parzialmente le circonvoluzioni compositive del predecessore e torna a fomentare pogo e violenza; i testi delle canzoni, fra i più politicamente espliciti mai scritti da Greenway, seguono di pari passo l’impatto delle note.
La title-track, corale da periferia degradata oscillante fra industrial e tribalismo nero alla primi Current 93, è uno dei pochissimi episodi in cui emerge la vena sperimentale sfruttata negli ultimi tempi; altri esempi possono essere ascoltati in “Dear Slum Landlord…”, lento e pesante incubo che somiglia a dei P.I.L. virati metal, oppure nella lunga “Adversarial/Copulating Snakes”. Il resto è, invece, un incessante susseguirsi di catenate grind, hardcore e death metal da manuale. “Smash a Single Digit” e “One-Eyed” sono le tracce più classiche, catastrofi in blast beat degne di “Scum”, mentre spetta a “Cesspits” e “Bloodless Coup” ribadire le origini HC/crust dei Nostri. Origini che, in realtà, non sono mai state celate e sono percepibili in ogni singola battuta dei Napalm Death.
Anche quando le influenze death si fanno più pressanti, e questo accade soprattutto in “Beyond The Pale” e “Timeless Flogging”, la voce di Shane Embury o la batteria di Danny Herrera ci ricordano sempre chi stiamo sentendo. È però quando collidono tutti questi elementi che si hanno i veri capolavori di “Apex Predator”. “Metaphorically Screw You”, grazie a un perfetto quanto impercettibile uso delle dinamiche, è sbalorditiva nella sua ricchezza di particolari compressi in soli due minuti. “How The Years Condemn” fa ancora meglio: partenza con riffing e tupatupa quasi punk ‘n’ roll (i Motorhead non sono così distanti), seguita da una progressione stilistica in grado di risultare molto più creativa e interessante di quanto offerto da parecchie band cosiddette avant-garde.
Al quindicesimo album in studio la maggior parte dei gruppi sopravvive a se stessa. Anche molti nomi storici non sfuggono a questo declino. I Napalm Death non sono più destabilizzanti come agli esordi, ma la loro forza è rimasta quasi intatta. Davvero raro.
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