A due anni di distanza dal suo ultimo passaggio in Italia e con in tasca un album, “Mean Love”, uscito lo scorso settembre e battezzato da critica e pubblico come quello della consacrazione, Sinkane (aka Ahmed Gallab) è tornato al Biko di Milano domenica 29 marzo 2015 per l’unica data italiana del suo tour europeo.
Ad aprire e chiudere la serata, nella classica atmosfera rilassata che caratterizza il piccolo club milanese, il dj set tutto dedicato alla black music di Steve Dub (Soul Bounce), cui va il merito di avere allietato con una raffinata selezione l’attesa per l’inizio del concerto.
Con quel po’ di ritardo che basta per fare accomodare anche il meno zelante dei convenuti (la filosofia dell’“arrivo quando mi pare, tanto, si sa, i concerti iniziano sempre in ritardo”, ormai è un classico, da rivedere!), Sinkane attacca con “Jeeper Creeper”, uno dei pezzi simbolo del suo penultimo lavoro, “Mars”, da cui eseguirà anche “Runnin’”, “Making Time” e “Warm Spell”. È un attimo, il viaggio è iniziato.
Il set, disegnato attorno ai pezzi del nuovo album, non durerà tantissimo, complice anche un leggero fastidio alla gola che attanaglia il povero Ahmed, come ci racconterà lui stesso a fine concerto, mentre impegnato a smontarsi la strumentazione trova anche il tempo per firmare vinili, scambiare due chiacchiere e farsi fotografare assieme ai suoi aficionados.
Da “Mean Love” suona “New Name”, “Yacha”, i singoli “How We Be” e “Young Trouble”, highlight della serata con un finalone tutto strumentale, impreziosito dalla citazione di “Hey Joe” di Hendrix. La sezione ritmica pulsa precisa e raffinata, mentre chitarre e synth (presente solo in alcuni pezzi e suonato da Sinkane) si intrecciano con la voce intessendo irresistibili trame lisergiche. Impossibile stare fermi, col corpo e con la mente. Ciò nonostante la scarsa attitudine al contatto visivo del musicista di origini sudanesi ma di stanza a New York, che per un’ora e mezza lascia parlare la musica, quasi senza soluzione di continuità. Il Biko intanto fluttua nei meandri dello spazio-tempo.
L’ebbrezza di “Young Trouble” anticipa l’uscita di scena ed il ritorno sul palco per un ultimo pezzo, quella “Mean Love” dal sapore decisamente Motown e dalla sorprendente affinità armonica del chorus con un pezzo piuttosto noto di una band piuttosto nota (“Don’t Let Me Down” dei Beatles). Qualche pezzo in più lo si sarebbe ascoltato volentieri da un artista che, tra l’altro, ha in curriculum ben quattro album, ma ad ammorbidire l’atterraggio ci pensa la selecta soul di Steve Dub. E tutti a letto contenti.