Gli Arcturus sono forse la band più creativa e intrigante dell’intera scena avant-garde norvegese, Ved Buens Ende (ma hanno inciso soltanto un disco) e Solefald (che però ultimamente hanno perso la bussola) permettendo. Quello che li ha resi unici è stato il costante rinnovarsi della proposta musicale. Non hanno mai scritto un album uguale all’altro, non ne hanno mai concepito uno brutto o semplicemente dispensabile. “Aspera Hiems Symponia” (1996) scardinava il black sinfonico dall’interno, ponendosi come alternativa neobarocca e alchemica agli istinti panici degli Emperor, al romanticismo nero e decadente dei Cradle Of Filth e al senso del fiabesco da fratelli Grimm dei primissimi Dimmu Borgir (quel che verrà dopo “Stormblåst” è un’altra cosa). “La Masquerade Infernale” (1997), tuttora il loro capolavoro, rimane uno dei pochissimi esempi in cui metal e classica si congiungono alla perfezione per dar vita a qualcosa mai tentato prima (eccezion fatta per alcune cose di Devil Doll) né raggiunto dopo. “The Sham Mirrors” (2002) cambiava di nuovo stile e tornava a una concezione più veloce e metallica del sound. Infine, “Sideshow Symphonies” (2005) rallentava i tempi e forgiava una peculiare lega di avant-progressive colmo di richiami neoclassici. Considerato lo splendore passato e il decennio di attesa, “Arcturian” si rivela una parziale delusione.
Torniamo a “La Masquerade Infernale”, dedicato dagli scandinavi alla “Pericolosa Ricerca dello Spirito Faustiano”. Una dichiarazione così reboante poteva sembrare una spacconata evitabile, ma in realtà il gruppo si mostrava degnissimo di citare la leggenda eternata da Goethe. Nel suo “Faust”, il grande poeta tedesco metteva al centro della vicenda proprio lo “Streben”, verbo la cui traduzione italiana indica l’aspirare a qualcosa che, in questo caso, altro non è se non la perpetua tensione verso l’infinito del protagonista che si scontra con l’istinto opposto del godere il “qui e oggi” del suo doppio Mefistofele (per troppo tempo li si è considerati personaggi autonomi; al contrario Listz, nella sua “Faust-Symphonie”, già nell’Ottocento comprese di aver a che fare con un colossale caso di doppelgänger). Un tendere inesausto oltre e per sempre oltre che gli Arcturus, per lo meno in note, non avevano mai cessato di esercitare.
Al contrario, nel nuovo cd non si scorge nessun elemento di novità. Per la prima volta sembra di sapere in anticipo come e dove i pezzi andranno a svilupparsi, non si resta sbalorditi di fronte a nulla. Il passato spadroneggia, le soluzioni compositive provengono interamente dai predecessori. Gli inserti elettronici, per quanto ben collocati, sanno di vecchio. Il contrasto fra arrangiamenti neoclassici e sferzate elettriche ripercorre sentieri già tracciati. “The Arcturian Sign” e “Crashland” rientrano perfettamente nella concezione di “Sideshow Symphonies”. La furiosa “Angst” ripropone blast beat e scream black, ma ricorda troppo da vicino “Radical Cut” di “The Sham Mirrors”. Le sospensioni spaziali di “Warp” sono un altro tassello incasellabile fra “Aspera Hiems Symponia” e il penultimo LP. La magniloquenza beffarda di “Archer” e il cabaret spettrale della conclusiva “Bane” riecheggiano le atmosfere della Mascherata. Non serve fare l’elenco completo delle dieci tracce; ognuna di esse è plasmata seguendo schemi risaputi, una prima volta assoluta nella vita del complesso. Ci viene di nuovo in soccorso Goethe. Pare proprio che il quintetto sia arrivato a quel momento in cui, svanito il pungolo in grado di spingerlo costantemente avanti, possa dire all’attimo di fermarsi, conquistato dalla sua bellezza.
Perché, è bene chiarirlo, nonostante tutto “Arcturian” è splendido. Vortex ha mantenuto una voce invidiabile, Hellhammer dietro le pelli è tuttora una garanzia di qualità, Skoll e Sverd sono impeccabili con basso, chitarra e tastiere, Møllarn è il solito tuttofare perfetto. Soltanto, è prevedibile. Gli Arcturus non comporranno mai un disco malfatto, tuttavia forse anche per loro è arrivato il momento della stasi.