Chi ama i grandi nomi commerciali, insegue il mainstream o i facili successi di classifica, può, deve tranquillamente saltare questo giro. In effetti il Primavera Sound è un grande, straordinario contenitore, dove c’è di tutto, ma, fortunatamente, non tutto.
A controllare la folla vien da chiedersi, con la letizia nel cuore, perché ciò sia possibile senza sfiorare neppure l’universo hip-hop o dei talent show, che qui viene serenamente ignorato, così come i personaggi televisivi o i teenage idol. Qui si fa musica, con orientamento rock, ma poi non ci si stupisca delle miscele world e magari anzi si festeggi, danzando, al suono di Tony Allen, l’eterno emblema dell’afro-beat che suona da par suo, celebrando la memoria e gli anni di militanza con Fela Kuti, ma non solo.
In questa macedonia dai gusti e dai colori più vari, viene da applaudire la performance di Marc Ribot con i Ceramic Dog, ingegnosi nello spaziare tra le tipiche sonorità estreme cui il chitarrista Usa ci ha abituati, e citazioni da Serge Gainsbourg o il remake di “Take five” di Dave Brubek, inappuntabili, naturalmente.
Il delicato songwriting vive un paio di parentesi di eccellenza con José González e Damien Rice, e anche attraverso il set di Perfume Genius, che dispone di ballate stranite, sghembe, giocate con una vocalità diafana, eppure convincenti, tali da strappare applausi a scroscio. Spostiamoci di palco dove si susseguono The New Pornographers e quindi Belle & Sebastian, a tratti più fragorosi e dinamici del previsto, mentre tra i nomi più datati vale la pena seguire i redivivi Church, dall’Australia, e anche i Ride, in gran forma davanti a un mare di teste: per entrambi, il segnale che la buona, vecchia matrice psichedelica non ha ammainato la bandiera. Anzi… Così come sono vivaci e pimpanti pure gli antichi Voivod, che forniscono una pennellata di sferzante punk d’epoca, chiudendo addirittura con una cover strapazzata e divertita dei Pink Floyd (“Astronomy Domine”).
E per chi cercasse emozioni forti al femminile, ecco le Sleater-Kinney, aspre, affilate, spigolose, molto chitarristiche come se il tempo non fosse mai passato, ma soprattutto Patti Smith con la riproposizione integrale di “Horses” il suo debutto-capolavoro del 1975. Lo rilancia con la fermezza e l’impeto che quelle canzoni si meritano: e dal grande schermo i primi piani sulle rughe, sui capelli bianchi di Patti, del suo indistruttibile socio Lenny Kaye sono una lieta conferma. Ovvero che non è tutto buono quel che è nuovo, e non è tutto nuovo quel che è buono. Una santa verità, da passare con tanti auguri alle varie cantanti nostrane, che oggi spopolano – Emma, Alessandra Amoroso, Noemi, Chiara, Annalisa – e domani, intorno al 2050, chissà…
Grazie a Enzo Gentile