Goatsnake – Black Age Blues

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Il ritorno dei Goatsnake ad un full-length, 15 anni dopo lo stupendo “Flower Of Disease”, rappresenta un piccolo evento all’interno dell’underground metal. Band di culto, in quasi vent’anni d’attività molto discontinua la scarsa produttività di Greg Anderson e soci è stata inversamente proporzionale alla qualità, sempre di altissimo livello. “Black Age Blues”, realizzato da tre quarti della line-up originale, conferma l’eccellenza della proposta. Il sopracitato leader dei Sunn 0))), negli ultimi tempi attivissimo con questi ultimi, decide di prendersi una pausa da sperimentazioni e collaborazioni più o meno riuscite e rispolvera il sound più lineare e concreto del doom/stoner dai riff grassi e saturi e dalle ritmiche squadrate. È anche una lezione di stile rivolta ai numerosissimi epigoni che si cimentano con tali sonorità, perché oltre agli elementi-base i Goatsnake imprimono la propria personalità in tutte le nove canzoni che compongono il disco.

Il titolo non è casuale. Il blues e certe suggestioni sudiste s’insinuano continuamente nel tessuto delle composizioni. Basti pensare all’intro di chitarra acustica dell’opener “Another River to Cross”, altrimenti un numero di classicismo doom, oppure all’armonica rubata a Little Walter che fa bella mostra di sé nella cupa e fangosa “Elevated Man” e nel finale di “Jimi’s Gone”, e ancora ai cori femminili che intridono di soul/gospel primordiale l’elettricità fragorosa di chitarra e basso, alll’hard rock saltellante di “Coffee & Whiskey”, ipotetico incrocio fra Led Zeppelin e Black Sabbath, al quasi boogie alla Canned Heat che introduce la title-track…s’è capito, sono moltissimi gli spunti interessanti presenti in “Black Age Blues”. Ottima la prova al microfono di Pete Stahl, cantante dalla voce piuttosto pulita per il genere, ma in grado di farsi valere comunque, specialmente nella conclusiva “A Killing Blues”. Perfetta la scelta dei suoni, che rifuggono da una produzione troppo scintillate ed enfatizzano il caldo e il sudore che emanano gli amplificatori valvolari.

Volendo a tutti i costi trovare difetti, si potrebbero sottolineare certe assonanze con i lavori di Down ed Electric Wizard (questi ultimi specialmente nella conclusione di “Grandpa Jones”), ma è ovvio che i pesi massimi di questa musica s’influenzino a vicenda. Sarebbe stato come se venti, trent’anni fa si fossero stigmatizzate le similitudini fra Metallica e Megadeth. Non ci sono chiacchiere che tengano, questo è un ritorno da maestri. Da consumare nelle umide e appiccicose serate estive.

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