“Out of the Wasteland” è il settimo album per i Lifehouse, gruppo che da anni cavalca le classifiche americane sfornando ballatone d’ispirazione e brani più pop-rock, che hanno valso loro molteplici comparsate e inserimenti in telefilm e serie teen come Smallville e similari.
Il presupposto di questo nuovo lavoro era che quello precedente, “Almeria”, ben accolto dalla stampa e dalla critica, non aveva ottenuto buoni riscontri da fans e vendite. Ecco allora un rapido e studiato dietrofront: un ritorno a brani più facili e dalla struttura familiare, un modo insomma per ottenere risultati e consensi migliori da parte di chi la musica la ascolta e la compra, con buona pace di chi cerca qualcosa di nuovo.
In pratica i Lifehouse sono dei sopravvissuti, ancora in grado di continuare a fare ciò che amano una quindicina di anni dopo i primi successi.
Il singolo e prima traccia “Hurricane” esemplifica il concetto: un segnale chiaro che i Lifehouse sono tornati al loro sound caratteristico, quel rock amichevole e radiofonico dove la voce di Jason Wade suona fresca come mai prima. “Hurricane” ricorda un po’ la “Halfway Gone” di qualche anno fa, senza copiarla.
“One for the Pain”, col suo coro quasi tribale sembra inizialmente un riempitivo ma traghetta efficacemente alla successiva “Flight”, un classico Lifehouse da qualunque angolazione lo si prenda: pianoforte, note morbide e lente, voce calma e posata. Un esempio del “faccio ciò che vi piace” rivolto ai fans.
“Runaways”, “Firing Squad” e “Wish” alternano ritmi e sonorità in un blando prosieguo fino alla sorprendente “Stardust”, ove è il bassista Bryce Soderberg a prendere in pugno il microfono, relegando Jason ai cori in un brano orecchiabile e diverso, dalle rime veloci anche se telefonate.
Poi ancora lenti e l’ ispirata “Yesterday’s son” col cantato caratterizzato da una serie di sovrapposizioni, che richiamano un po’ l’eco che proviene da stanze vuote, con chitarre morbide e tamburi in levare che ci accompagnano verso la conclusiva “Hourglass”, brano dallo spiccato carattere emozionale tutto incentrato su voci e piano, con i cori dell’emergente Jordan Withlock e la produzione del pluripremiato compositore cinematografico James Newton Howard.
“Out of the Wasteland” in definitiva ha riportato i Lifehouse al loro suono più genuino, attraverso quella che loro stessi hanno definito non una regressione ma una rinascita: non tocca i picchi di alcuni lavori precedenti, ma riporta il gruppo su livelli accettabili e di sicuro a qualche rotazione radiofonica in più.