Ventiseiesima edizione per il Wacken Open Air, il festival metal europeo per antonomasia, forse il più longevo di quelli estivi, sicuramente il più amato, il più desiserato e, come dice il suo slogan, il più duro, il più veloce, il più rumoroso.
Sicuramente questa edizione per il sottoscritto è stata la più dura, resa tale dal meteo che nei giorni precedenti l’evento ha pensato bene di scaricare sull’area campeggio e l’adiacente area concerti, ettolitri di gelida acqua del nord, riducendo tutto quanto allo stato di palude acquitrinosa.
L’arrivo in loco mercoledì 29 luglio è stato dei meno amichevoli possibili: ho dovuto montare la tenda sotto una simpatica pioggia battente, con i panni completamente zuppi d’acqua. La situazione meteo non è andata migliorando che il giorno successivo: a malincuore ho dovuto rinunciare ad assistere agli spettacoli serali di warm-up di Uli Jon Roth ed Europe. Il primo ha proposto un repertorio dei primi Scorpions, i secondi hanno invece dato vita ad uno show incentrato principalmente sui brani recenti estratti dall’ultimo album in studio.
Day 1
La giornata seguente era quella per la quale io (e credo la quasi totalità dei presenti) ero presenti al festival: lo show di Savatage e Trans-Siberian Orchestra. Le due band non erano le sole ad esibirsi nella giornata di apertura del festival, avviato come ormai di consueto dagli Skyline (band di casa a tutti gli effetti in quel di Wacken). Un inedito UDO accompagnato dal Bundeswehr Musikkorps, ha offerto uno spettacolo particolare e di sicuro effetto, chiudendo con alcuni brani targati Accept che non hanno mancato di infuocare l’umido pubblico. E’ stato poi il turno degli In Extremo autori della solita prova di classe, apprezzatissimi da una nutritissima schiera di fan teutonici assiepati sotto entrambi i main stage dell’area concerti.
Prima degli headliner a calcare il True Metal Stage è stato Rob Zombie con la sua band, offrendo uno spettacolo maiuscolo, grintoso e tamarro come non mai. Solo lui può permettersi di proporre all’audience di Wacken una cover di “Get Up (I Feel Like Being a) Sex Machine” di James Brown ed uscirne illeso, non fischiato, ma anzi applaudito ed osannato. Show tra i migliori dell’intero festival, l’ideale per scaldare tutti quanti prima dei main-event ormai prossimo.
Savatage e Trans Siberian Orchestra hanno quindi il compito di chiudere la prima giornata di festival proponendo uno spettacolo mai visto prima, con coreografie e giochi di luce e fuoco sincronizzati su due palchi: due band spettacolari che suonavano contemporaneamente, duetti vocali con i singer su due palchi differenti… insomma, tutto quello che può trasformare un semplice show in uno show memorabile, indimenticabile, e difficilmente riproducibile. Tentare di fare di più sarà un’impresa difficilissima.
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Stanchi ed infangati si torna alle tende, finalmente il cielo è sgombro di nubi, pare che nei giorni successivi la pioggia non tornerà a molestarci, pertanto l’unico nemico rimarrà il fango impietoso e (chi è stato a Wacken lo saprà per certo) maleodorante.
Day 2
La mattina del secondo giorno di festival è nuvolosa, ma senza pioggia, la giornata sarà lunga e il programma dal pomeriggio è ricco e gustoso.
C’è tempo per un giro in paese per una ricca colazione ipercalorica, uno per i numerosi banchetti, per un pranzo ancor più sostanzioso della colazione e qualche birra, nell’attesa che i Queensryche aprano le danze a metà pomeriggio. Il sole ha fatto la sua comparsa, la giornata è piacevole, la band è assolutamente in spolvero e la scaletta pesca dalla discografia più datata proponendo oltre agli immancabili brani dal capolavoro assoluto della band (“Operation Mindcrime“), brani vecchissimi come la tiratissima “Queen of the Reich”. Proposti anche un paio di pezzi dall’imminente nuovo album, invero piuttosto interessanti.
Immediatamente a seguire è il turno degli Opeth, ormai padroni di sonorità progressive ed oniriche, forse un po’ troppo rilassanti per l’ora ancora calda e luminosa, ma il baffuto Mikael Åkerfeldt è uno scafato intrattenitore di folle, e sa conquistare l’attenzione e la simpatia del pubblico.
Il tempo di spostarsi verso gli stage coperti per poter apprezzare la fine del set dei thrasher Death Angel, grandi mattatori sul palco e apprezzatissimi dai presenti; quindi è il momento di uno degli show più attesi della giornata. Sono di scena gli storici Armored Saints, freschi di disco nuovo e capitanati dal carismatico Jon Bush. Anche loro fautori di un eccezionale show, con una scaletta varia ed arricchita da estratti del nuovo platter. Nonostante le dimensioni ridotte dello stage che hanno sicuramente limitato l’esuberanza di Bush, il pubblico (purtroppo non dei più numerosi) ha apprezzato abbondamentemete lo spettacolo dell’ormai scafato combo statunitense.
Dagli USA si passa alla Svizzera e ad atmosfere più plumbee e malate: è infatti il turno dei Samael, che propongono una setlist incentrata principalmente sul disco del 1994 “Cerimony of Opposites”, disco della svolta per il sound originariamente estremo della band. Sul palco infatti presenteranno una drum-machine e in posizione centrale le ormai immancabili tastiere. Uno show duro, che ha saputo soddisfare sia i palati più estremi che quelli dei fan più “raffinati” e desiderosi di sonorità più sofisticate.
E’ calata la sera, ed è il turno degli headliner della giornata. L’area antistante i main stage è piena e tutto il pubblico di Wacken sembra in attesa degli svedesi In Flames, ormai di casa al festival tedesco. Anders Fridén sfoggia un look sempre meno metal e sempre più “alternative”; la divisa total-white con tanto di cappellino, capello rasato e barba però lo fa assomigliate terribilmente a Jovanotti e la cosa stride un po’ con l’assalto sonoro che la band mette in scena (ma non diciamogli niente che lui è contento così, credo). Nonostante l’allontanamento del sound da quel melodic-death delle origini, i fans accolgono come sempre la band con raro calore, il muro di suono è notevole, l’impianto luci dei palchi messo a dura prova, fiammate e fuochi d’artificio non si sprecano, e la band sul palco non si risparmia una singola goccia di sudore. Difficile non apprezzare uno show del genere, e i 75mila di Wacken hanno per l’ennesima volta promosso gli IF a pieni voti.
Ancora deve dissolversi il fumo degli ultimi fuochi artificiali che già Rock n’Rolf sale sul palco assieme alla sua ciurma per dare fuoco alle polveri. Si parte col botto con “Under Jolly Roger” ma subito si intuisce che le polveri devono aver preso un po’ di umidità, perché di botti purtroppo non se ne sentono. La band sembra svogliata, il suono è piatto, la batteria non ha tiro. Lo show non decolla proprio. Su una piattissima “Riding the Storm” decidiamo che è giunto il momento di levare gli ormeggi, e salpare nuovamente verso i palchi coperti per assistere a quello che per noi sarà l’ultimo show della giornata.
Sul W.E.T. stage troviamo già pronti i My Dying Bride, che con il loro show iper-lento e super-depresso riescono ad essere più incisivi e convincenti dei vecchi pirati che ci siamo lasciati alle spalle. La notte è ormai scesa sull’area concerti, e sarà fredda (così ci dice il team di Wacken attraverso l’utilissima app ufficiale del festival); ci avviamo alla tenda, stanchi ma soddisfatti dalla qualità di (quasi) tutti gli show della giornata.
Day 3
Il risveglio alla mattina del terzo giorno finalmente ci mette di fronte ad un cielo sgombro di nubi e ad un caldo sole, che inizierà ad indurire buona parte della fanghiglia paludosa che ammanta ormai da giorni l’area campeggio e la zona concerti.
Il primo appuntamento della giornata è per le 14.30 al Black Stage, dove gli Amorphis portano in scena per intero il loro album “Tales from a Thousand Lakes”, seguito da alcuni brani super-rari che la band non ha quasi mai proposto dal vivo. Il sole caldo che oggi batte sulle nostre teste poco si sposa con le tematiche vichinghe proposte dalla band, ma lo show è ugualmente ottimo, il tempo passa in un lampo e la chiusura dello show è affidata a “Vulgar Necrolatry”, “Better Unborn”, “Against Widows” e “My Kantele”.
Poco più tardi nel pomeriggio il progetto “Rock meets Classic” promette di portare sul palco mostri sacri come Michael Kiske e Dee Snider, oltre ad altri ospiti di eccezione. Lo show inizia un po’ in sordina, ma dopo quattro pezzi non particolarmente convincenti, ecco prendere il microfono Joe Lynn Turner, che ci delizia con un’ottima interpretazione di “Stargazer”, dedicata ovviamente alla memoria del compianto Ronnie James Dio.
Viene poi il turno di Kiske, che lascia tutti quanti a bocca aperta cantando tre classiconi degli Helloween con una naturalezza imbarazzante, come se i 20 e passa anni da quando decise di abbandonare le scene metal non fossero nemmeno passati. Una delle migliori voci in circolazione, tanto di cappello all’ex-zucca amburghese.
Il mattatore dello show deve ancora fare il suo ingresso on-stage : signori, dagli U.S.A. qui per voi Dee “Fucking” Snider from Twisted “fucking” Sister. Il sessantenne sfoggia una forma fisica invidiabilissima, una voce carica e potente come non mai e la solita grinta incontenibile. “Il carisma travestito da baldracca” è la definizione che meglio descrive questo personaggio, che nonostante il sole battente ed il fango ancora presente sotto palco, è riuscito a far cantare e saltare tutti quanti, dalla transenna ai più lontani baracchini del cibo. Spettacolo puro concluso con tutti gli artisti sul palco a cantare col pubblico “Highway to Hell”.
Il festival volge al termine, mancano pochi minuti per un altro main event, lo show delle leggende viventi dell’heavy metal, una delle band che ha contribuito ad inventare questo genere, i Judas Priest, originari di Birmingham (UK), stessa città dell’altra leggendaria band che risponde a nome di Black Sabbath e dai quali i Priest hanno pensato di attingere per il loro brano introduttivo. E’ infatti sulle note di “War Pigs” che Halford e compagni fanno il loro trionfale ingresso in scena. Il boato della folla sommerge i watt rovesciati sull’area concerti dall’impianto di amplificazione, e Rob con la sua voce forse un po’ roca, ma decisamente su registri che non si apprezzavano più da qualche tempo, guida la corazzata borchiata per quasi due ore di puro spettacolo che attraversa la discografia priestiana, proponendo tutte le perle più preziose realizzate dalla band. Il pubblico di Wacken si inchina al cospetto del Prete di Giuda, versando il dovuto tributo in suo onore e levando alte le corna al cielo.
Passato lo scossone Judas è l’ora per i Cradle of Filth di entrare in scena; autori di uno show che in quanto a piattume, assenza di tiro, volumi sballati e noia va a fare il paio con quello dei Running Wild della sera prima. Scornati dalla cosa si fugge per l’ultima volta verso i palchi coperti, dove stanno per entrate in scena i Waltari, che con il loro particolarissimo crossover saranno autori di una prestazione maiuscola: il carosello pazzo di generi messi insieme dai Finlandesi guidati dal rossocrinuto folletto pazzo Kärtsy Hatakka è un miscuglio riuscitissimo di generi musicali ed effetti elettronici. La proposta regge, la band è in gran forma, il pubblico un po’ scarno e visibilmente provato da una tre giorni piuttosto pesante, ma nessun modo migliore poteva esserci per chiudere questo Wacken 2015 se non quello di bere un’ultima birra sulle note folli di questa incredibile band.
L’avventura è finita anche per quest’anno, come di consueto si smonta la tenda e si prende commiato dalla Sacra Terra del Metallo: “See you next year. Rain or shine.”. Cover Story WOA Facebook.