John Mayall, il report del concerto a Bologna del 17 ottobre 2015

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Il concerto di John Mayall all’Auditorium Manzoni di Bologna del 17 ottobre 2015 è un viaggio nel blues in tutte le sue forme ed espressioni. Solo un brano dall’ultimo disco “Find a Way To Care”, la swingante “Feel So Bad” condotta da un organo hammond scintillante, per il resto pezzi appartenenti alla lunghissima carriera del nostro (che avrà 82 anni il 23 novembre) e un tributo ai grandi che hanno scritto la storia del blues.

La sala è piena, e in attesa del clou, ci si scalda con i The Cyborgs che, con il volto nascosto sotto maschere da saldatori, praticano ruvido blues alla John Lee Hooker. Poi, accolto da un vero boato, ecco John Mayall. Difficile pensare che questo signore distinto dai capelli bianchi, che sembra un turista inglese in vacanza, sia il maestro di gente come Eric Clapton, Jack Bruce, Mick Taylor e molti altri ancora. Ma, appena parte “The Bear” dall’album del ’68 “Blues from Laurel Canyon”, si capisce che è proprio lui. Niente codino, ma tanto groove, come è evidente in “Lookin’Back” di Johnny Guitar Watson e soprattutto “Speak of The Devil”, del texano Sonny Landreth.

I musicisti che lo accompagnano da anni, Greg Rzab al basso, Jay Davenport alla batteria e Rocky Athas alla chitarra, concedono poco o nulla allo spettacolo, ma la sezione ritmica non perde un colpo e Athas fa del suo meglio per non sfigurare al confronto con illustri predecessori. Con “Help Me” di Sonny Boy Williamson, arriva la prima scudisciata, e ci si chiede come farà John a suonare tastiera e armonica contemporaneamente, poi il New Orleans style di “Congo Square”, con i suoi tempi dispari, cattura definitivamente e il chitarrista si prende i suoi applausi. Da un concerto di John Mayall, che dialoga e scherza volentieri con il pubblico (“Abbiamo appena suonato in Francia, ma qui siete un tantino più rumorosi…“), non c’è da aspettarsi altro che sano, corroborante, blues, recitato a dovere dalla voce nasale del leader. Niente saltelli sul palco o gigioneria, solo buona, vecchia roba. Come “Voodoo Music” di J.B.Lenoir, o “Another Kinda Love” dei tempi dei Bluesbreakers. Il jazz fa capolino in “The Sum of Something”, poi, dopo tanto boogie, arriva un’ accorata versione di “Stormy Monday”, drammatica song di T-Bone Walker resa famosa nell’interpretazione della Allman Brothers Band. Anche qui Athas deve misurarsi con modelli forti come Duane Allman e Dick Betts, ma riesce a portare a casa il risultato, quasi stupito dall’accoglienza del pubblico.

Nella conclusiva “Chicago Line”, ancora dal repertorio Bluesbreakers (1965), ecco l’imprevisto. Greg Athas, che finora era rimasto immobile, quasi indolente, dietro lo strumento, si scatena in un solo di basso tra Stanley Clarke e Jaco Pastorius, mandando in visibilio la folla. Per il bis, la gente chiede a gran voce “Room to Move” (dal capolavoro “The Turning Point” del ’69), ma avrà invece “Maydell”, da “Wake Up Call” del ’93. Sarebbe stata una conclusione perfetta per un concerto, ma al pubblico entusiasta del Manzoni sembra andare bene anche così.

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