“Me ne stavo lì con questi alambicchi elettronici a un certo punto uno di essi è esploso ed è apparso Maximilian. Era un’entità metafisica, non visibile, ma percepibile in tutta la stanza e mi ha detto: “Tu farai un disco di canzoni e lo chiamerai “Maximilian”, a presentarmi, perché io da oggi in poi prenderò possesso di te””. Un’allucinazione? Forse, ma soprattutto l’evento scatenante la genesi dell’ultimo progetto discografico di Max Gazzè, così come ce lo ha raccontato mercoledì in conferenza stampa a Milano. Il disco, da oggi disponibile in tutti i negozi, “nasce da un processo un po’ particolare. Maximilian, infatti, doveva essere uno pseudonimo con cui fare un album di musica sperimentale, dato che da svariati decenni mi diverto a utilizzare sintetizzatori, software e apparecchi fisici che modificano le forme d’onda”. Poi però le cose sono andate diversamente, il “poltergeist”, come lo definisce Max, si è palesato e “mio malgrado, sono stato costretto a chiamare il disco “Maximilian”. Ho un po’ di paura, ve lo confesso”.
Personaggio fuori dal tempo, “Maximilian occupa il mio stesso spazio”, ha spiegato Gazzè, “ma arriva da un tempo diverso, viene da una frequenza diversa e in maniera perentoria mi ha detto: “Max, ricordati che il tempo è tutto nello stesso tempo, esso non cambia, ma tutto cambia nel tempo””. Passato, presente e futuro si confondono nell’essenza di quest’entità, che trova rappresentazione nella copertina del disco: “Gli ho dato una figura così perché lui ricorda un po’ un imperatore, un condottiero o un guerriero, allo stesso tempo però l’ambientazione non è legata al passato, benché sembri un quadro di Dürer del 700, ma è futuristica, quindi c’è un pannello azzurro, per collocarlo in un tempo futuro. Ah, e la pelliccia della foto è sintetica, ci tengo a sottolinearlo”.
Oltre che nelle sonorità e nelle atmosfere provenienti da diverse epoche, “come in un quadro, che ha il blu, il rosso e quindi è eterogeneo, ma ha un equilibrio nelle sue forme e nei colori”, l’album, “che è un concept per il fatto stesso di contenere materiale così vario”, manifesta “il suo legame col “poltergeist” nella sperimentazione elettronica, che non è presente in maniera forte in questo disco, ma ci sono già degli elementi che introducono quello che sarà il lavoro di Maximilian nei prossimi anni, un lavoro parallelo. Magari Maximilian il prossimo disco lo chiamerà “Max Gazzè””. Un alter ego un tantino inquietante, tramite il quale però Max ha trovato la chiave per esprimere la sua natura di sperimentatore, “perché al di là delle canzoni mi piace sperimentare con i suoni, quindi in qualche modo Maximilian è una parte di me, che si è staccata e rappresenta quella cosa lì“.
Sono varie, dunque, le suggestioni sonore messe in campo da Max Gazzè nei dieci pezzi, scritti assieme ai collaboratori di sempre, ma anche a qualche nuovo amico, che compongono quest’album nato un po’ per caso e un po’ per necessità. “Già quest’inverno avevo iniziato a scrivere qualcosa“, ha spiegato Max, “ma la mia idea in realtà era quella di prendermi un anno sabbatico alla fine del periodo col trio (Fabi, Silvestri, Gazzè, ndr) e fare un disco di musica sperimentale, che prescinda dalla struttura canzone, e volevo farlo con lo pseudonimo di Maximilian. Quindi ho cominciato a lavorarci, poi, però, c’erano queste canzoni scritte assieme a mio fratello Francesco, a De Benedictis, a Giorgio Baldi e a Tommaso del Giulio. Una miriade di cose tra canzoni finite o lasciate a metà e sapevo che se non avessi fatto il disco subito le avrei lasciate raffreddare, per cui alla fine mi sono messo lì e mi ci è voluta una settimana per capire su quali canzoni volevo lavorare e come doveva essere il disco”.
Ne è venuto fuori un lavoro vario ma coerente. C’è l’elettronica di pezzi come “Un uomo diverso”, “Ti sembra normale”, la già citata “Disordine d’aprile” e quella “Mille volte ancora” che apre l’album con un tema importante come quello del rapporto padre-figlio, “un amore che va alimentato e ricostruito ogni volta. È importante non adagiarsi in questo rapporto, ma saperlo considerare ogni giorno come qualcosa di diverso. Questo discorso vale per qualsiasi rapporto d’amore e nel disco ci sono tante canzoni che parlano di rapporti e anche delle loro esasperazioni, raccontate magari in chiave ironica, come in “Teresa”, un nome inventato per un’ipotetica convivente, dove scherzando parlo del tornare a vivere a casa dei tuoi perché ti cucinano meglio la pasta”. E poi ci sono brani dal carattere antico come “Nulla”, “In breve” e “Verso un immenso cielo”, “un viaggio nell’anima”, come lo descrive Max, o la ballata “Sul fiume”, di cui “mi piaceva il sapore un po’ Anni 60. Mi immagino un Sergio Endrigo con Bardotti che gli scrive il testo o un Gino Paoli appoggiato al piano che canta questa canzone. L’Hammond B4, poi, ricorda molto un’ambientazione alla Procol Harum e anche il linguaggio è retrò”. Ma c’è anche la caciara patchankera del singolo “La vita com’è”, “un invito ad accettare la vita così come si presenta, come accade, senza dover per forza soffrire nel tentativo di contrastarne il procedere”.
Un tourbillon di suoni, insomma, uniti sotto l’egida dell’ironia e del gusto per la parola caratteristici della produzione di Gazzè che, già al lavoro su “visuals e scenografie del tour in partenza nel 2016 e per il quale voglio spingermi oltre nella cura dei live, dando a ogni brano l’ambientazione giusta”, sarà in giro fino al 12 novembre con l’instore tour, che lo vedrà eseguire anche qualche pezzo in acustico con la band. Noi intanto, a scanso di equivoci, ci beviamo un caffè.