Cappello introduttivo per uno dei report più difficili che mi sono ritrovato a scrivere sin dagli esordi come semplice scribacchino; se volete sapere come è andata in quel di Trieste andate oltre il corsivo. Non è facile parlare di un evento di intrattenimento dopo quanto successo a Parigi, teatro di uno degli attentati più sconvolgenti degli ultimi anni, dal punto di vista morale anche più devastante degli attentati dell’11 settembre. Perché questa volta non si è deciso di attaccare un simbolo del capitalismo occidentale, distruggendo due grattacieli, ma il pensiero e la sicurezza di una qualsiasi persona. Perché attaccare uno stadio e una sala concerti, per di più in un venerdì sera e in una delle culle della civiltà contemporanea come Parigi, significa che il terrorismo è ben consapevole di ciò che vuole attaccare: le piccole certezze del singolo.
Ero partito per il concerto di Trieste degli Scorpions con la consapevolezza che fosse difficile replicare la bomba atomica della scorsa estate, quando i teutonici si esibirono da headliner nel nostro Paese dopo svariati anni. Dopo le note della conclusiva “Rock You Like A Hurricane”, che ha chiuso un’esibizione della durata di circa un’ora e quaranta minuti, mi sono riconosciuto nelle parole del resoconto del concerto di Milano, con la forte consapevolezza che la band non stia sentendo il peso dei cinquant’anni di carriera.
La scaletta proposta in quel di Trieste è un vero e proprio best of, uno show studiato nel minimo dettaglio (non vi saranno infatti sorprese rispetto alle altre date del tour) che è quello che ci si aspetta da una band il cui più giovane componente è ad un passo dai cinquant’anni e che non può permettersi di strafare: ci sono le ballad colonna sonora di non si sa quante coppie più o meno giovani in giro per il mondo, alcuni degli inni più importanti del rock internazionale, le chitarre di Rudolph Schenker una più stilosa dell’altra (la migliore quella con la marmitta incorporata, utilizzata durante “Blackout”), le pose e i sorrisi smaglianti di Matthias Jabs durante gli assoli, gli acuti di quell’idolo assoluto di Klaus Meine e il carismatico batterista James Kottak, unico componente non europeo del gruppo al quale verrà dato un ampio spazio per mostrare al pubblico di essere un gran batterista e il re dei tamarri. Sì, perché il bello della band di Hannover è che ci si trova davanti a quattro frontman carismatici (con il bassista polacco Paweł Mąciwoda a dirigere la sezione ritmica) che, pur avanti con l’età, dimostrano di avere ancora troppa voglia di divertirsi su di un palco e davanti a migliaia di fan ogni sera.
Fossero nati in Regno Unito o negli Stati Uniti, probabilmente avrebbero venduto molto di più delle cento milioni di copie piazzate in cinquant’anni di carriera o perlomeno i tour li farebbero negli stadi, al pari di nomi come AC/DC e Rolling Stones. Resta il fatto che gli Scorpions, ad oggi, sono ancora in uno stato di forma stratosferico e, tenendo conto che i loro show comunque superano di poco i 90 minuti di durata, l’impressione è che la festa di addio iniziata nel 2009 possa durare ancora per diversi anni.
Nicola Lucchetta – Foto di Sabrina Tagliapietra