Quello dei The Maccabees di martedì 3 febbraio 2016 al Fabrique di Milano – unica data della band nella Penisola – era un live che i loro fan italiani attendevano con trepidazione da tempo, se non dal 2012, anno del loro ultimo passaggio in terra nostrana, almeno dal primo ascolto dell’ultimo strepitoso “Marks to Prove It”. Aspettative altissime, dunque, per l’esibizione dal vivo della formazione capitanata dal delizioso Orlando Weeks che, probabilmente anche in funzione di questo, ha lasciato un sapore dolceamaro ai palati del pubblico assiepatosi nella prima metà del parterre di un Fabrique dimezzato per l’occasione.
Ma procediamo con ordine. L’onore di aprire la serata è toccato a Johnny Lloyd, ex membro di Operahouse e Tribes che, accompagnato sul palco da una band di tre elementi (seconda chitarra, basso e batteria), ha fatto ascoltare al pubblico di Milano i brani del suo primo progetto solista, l’EP “Pilgrims”. Interessante frullatone, in cui si sentono le influenze di MGMT (quelli di “Oracular Spectacular”), The Kooks, Jake Bugg, The Cure, inflessioni vocali che qua e là ricordano Damon Albarn e Richard Ashcroft, per arrivare fino al riferimento fondante di Leonard Cohen, incredibilmente presente in un brano come “Tomorrow”, questa prima prova dell’artista londinese è assolutamente da scoprire.
Dopo un cambio palco discretamente lungo, è l’urlo di “Marks to Prove It” ad aprire la scaletta di 18 pezzi con cui The Maccabees porteranno a casa una delle ultime date del lungo tour mondiale seguito alla pubblicazione della loro ultima fatica. “Feel to Follow” e “Wall of Arms”, tratti rispettivamente dal terzo e dal secondo lavoro della band, seguono a ruota, confermando le prime impressioni relative alla deludente acustica di sala approntata per la serata, compito non facile vista la compresenza sul palco di tre chitarre e un piano oltre alla sezione ritmica – chiaramente meno penalizzata – e alla voce di Weeks, affogata dalla piena proveniente dal palco. “Kamakura” e “Ribbon Road” riportano il live alle squisite atmosfere dell’ultimo album, ma la fruizione di pezzi che come questi si fondano su un ricchissimo range di dinamiche e sapienti tessiture melodiche ad opera delle chitarre è inficiata dalle condizioni acustiche, che l’avvicinano in tutto e per tutto ad un cazzo di coitus interruptus.
Sono le canzoni tirate e canterine, come “Love You Better”, “Young Lions”, “Precious Time” e “Can You Give It”, tratte dai primi due album della band, a funzionare meglio e a scaldare il parterre, complice anche un Felix White che non perde occasione per aizzare il pubblico e si lascia trascinare senza fare troppe storie, anzi. Persino Orlando Weeks appare più loquace del solito, mentre il resto della band fa il suo con impeccabile aplomb britannico. L’atmosfera è calda e “Spit It Out” getta le ultime stille di benzina sul fuoco, prima della parentesi introspettiva con “Silence” e “River Song”. Una bolla di sapone rotta dal groove dell’intro di batteria di “No Kind Words”, che introduce un finale dal sapore anthemico ottenuto col dittico “Grew Up At Midnight” e “Something Like Happiness”.
Rientrati sul palco, Weeks e soci attaccano l’encore col vorticoso crescendo di “WW1 Portraits”, seguito dal romantico divertissement di “Toothpaste Kisses”, per chiudere con l’esplosiva “Pelican”, uno dei loro pezzi più noti, capace di cancellare almeno per il tempo di una canzone la spiacevole impressione di non avere goduto appieno dell’esaltante bellezza della musica di questi cinque ragazzi di South London.