Quinto album per i Black Stone Cherry, tornati a casa per registrare questo “Kentucky” sia in senso geografico che musicale: l’album trasuda la sua natura southern rock ad ogni nota, grazie allo stile consolidato e alle influenze blues e soul mai nascoste e oggi ancor meglio integrate nelle composizioni granitiche e riffeggianti della band di Chris Robertson.
I Black Stone Cherry hanno sempre avuto un sound riconoscibile fin dagli esordi, ma sono maturati molto dal punti di vista tecnico e della stesura dei testi regalandoci una prova convincente e dall’appeal immediato. In più, negli anni hanno alzato i ritmi, raggiungendo un tono heavy al punto giusto.
E allora ecco che l’ascolto parte forte fin dall’ apertura affidata a “The Way Of The Future”, col suo riff trascinante, e subito seguita da “In Our Dreams”, primo singolo dal nuovo lavoro, melodico nell’essenza ma con una ritmica molto potente, per quelli a cui piace vincere facile.
Ma come detto, il blues permea questo disco nelle sue sottotrame e si concretizza nella notevole “Soul Machine”, impreziosita da cori e fiati, e in “Long Ride”, una ballata dall’assolo coinvolgente, probabile hit da Virgin Radio per capirci.
Ma questo non è un album che viene dai prati bensì dalle miniere, come hanno detto i nostri quattro: non ci si può adagiare su temi e note accoglienti, che subito la produzione di David Barrick ci ricorda che questo è un disco rock dove anche violini ottoni e chitarre acustiche si piegano alla natura dura di un lavoro che suona spesso immediato, e che in quindici tracce è capace di sferrare colpi allo stomaco anche quando sono telefonati.