La leggenda scorre tra le tantissime note che tocca l’ugola di Chris Cornell. Dopo Trieste e Roma, la voce di Soundgarden, Audioslave e Temple of the Dog muove i suoi passi sul palco del Teatro Arcimboldi di Milano, circondato da una scenografia fatta di vinili e chitarre acustiche, un cuore pulsante dietro le spalle, luci soffuse, un violoncello di accompagnamento e la presenza gigantesca di un artista che ha collezionato un numero impressionante di successi nella sua carriera quasi trentennale influenzando generazioni di musicisti e facendo sognare orde di fan in tutto il mondo.
In questa dimensione intima e acustica, che già ci aveva proposto nel tour ‘songbook’ celebrato con l’uscita di un live ufficiale, si ripercorre tutto il cammino artistico nei vari gruppi (o supergruppi) nei quali ha militato, i suoi album solisti tra cui l’ultimo e ottimo “Higher Truth” lasciando spazio per alcune cover. Si inizia appunto proponendo materiale dall’ultimo lavoro di studio con “Before We Disappear”, dedicato alla moglie presente con la figlia Tony ai bordi del palco, presentata con le parole di esortazione di Chris a vivere ogni momento al pieno delle sue potenzialità emotive, perché tutto scorre e sfuma via, lasciandoci solo uno sbiadito ricordo.
“Higher Truth”, acclamato da critica e pubblico, è ampiamente rappresentato. Dalla title track che usa come conclusione del concerto, al singolo “Nearly Forgot My Broken Heart”, molto apprezzata. Un vero gioiello “Let Your Eyes Wander”, toccante nelle melodie e nel delicatissimo testo, testimone di una svolta sentimentale di Chris più vicino a valori universali come la famiglia e il rispetto per se stessi, lontani dal furore degli anni ’90 che bruciava tutto e nel minor tempo possibile, come quella famosa fiamma di quella canzone di Neil Young, citata da quel famoso cantante simbolo del grunge che si è spento troppo presto, ma questa è un’altra storia.
Neil Young è citato da Cornell in quanto dice di avergli rubato l’idea del marchingegno che, adagiato intorno al collo, gli consente di avere microfono e armonica a portata di ugola permettendogli di camminare liberamente sul palco e in qualche momento giù di fronte alla prima fila di spettatori per urlargli in faccia il successo degli Audioslave “Doesn’t Remind Me” e per inebriarli con l’eterna apologia della pace di “Imagine” di John Lennon. Il suo amore per il quartetto di Liverpool viene ribadito con la cover della sua canzone preferita “A Day in the Life”. Le citazioni di artisti che lo hanno influenzato e ispirato sono una costante di tutta la vita di Chris, al quale è sempre piaciuto dare una sua chiave di lettura ai grandi classici del rock. Ieri ha proposto la bellissima “Thank You” dei Led Zeppelin, l’illuminante “The Times They’re a Changin” di Bob Dylan e una versione incredibile, intensissima di “Billie Jean” di Michael Jackson, registrata in studio e presente nell’album “Carry On” del 2007, che dimostra come una canzone apparentemente leggera nella versione originale nasconda dentro sé un testo profondissimo che nella versione di Cornell risalta e viene evidenziata, coadiuvata da una interpretazione intensissima e emozionante.
Quello che la maggior parte del pubblico stava aspettando è di certo la rivisitazione del capitolo Soundgarden, il più rappresentativo e duraturo della sua carriera. Pezzi intramontabili come “Fell on Black Days” e la generazionale “Black Hole Sun” hanno scaldato i cuori nostalgici, unite alla chicca di una “Rusty Cage” presa in prestito da Johnny Cash, niente di meno, e poi ripresa a sua volta da Chris Cornell omaggiandone l’interpretazione country che ha esaltato tutti i presenti. “Blow Up The Outside World” è un inno alla necessità di porsi a riparo dalla tempesta, di riscoprire le piccole cose e aggrapparvisi per non farsi trascinare via e perdersi, memore dei concitati anni del rock di Seattle e delle sue tante vittime nel nome della gloria e della celebrità.
Una menzione a parte merita il tributo ad una ‘one shot’ band che è rimasta nei cuori di tutti gli amanti del rock, il cui unico album compie in questi giorni 25 anni. Sono i Temple of the Dog. Cornell suona una delle canzoni più belle di quegli anni, dedicata come tutto il disco ad Andrew Wood, scomparso cantante dei Mother Love Bone, band dalle cui ceneri sono nati i Pearl Jam. “Say Hello to Heaven” è una canzone di dimensioni gigantesche, sia per interpretazione che per composizione, che già agli inizi della carriera aveva presentato al mondo le infinite doti e il talento di un compositore e un esecutore unico nel suo genere. L’immortale perla di “Hunger Strike”, qui presentata con violoncello in una veste più folk, ha fatto venire le lacrime agli occhi a molti.
Più di due ore di ritratto di più ere, una carrellata di ricordi, di poesia e di rabbia, di sentimenti che sono mutati, sono evoluti e maturati, diventando altro in un percorso di positività verso la luce, che Chris desidera insegnare ponendosi come esempio. La sua voce, uno dei range più ampi e potenti che il rock abbia mai visto, dopo un periodo di appannaggio rinasce oggi in maniera nuova. Più matura, roca. Unica. Dentro di essa ci sono 25 anni di urla, di parolacce, di amore e di odio, di rabbia. Per tutti i fan di Chris Cornell l’esperienza è stata devastante. Dopo tanti giri prima o poi le vostre orecchie, i vostri occhi e i vostri cuori torneranno qui.
>> Guarda le foto del concerto di Chris Cornell a Trieste del 15 aprile 2016
https://www.youtube.com/watch?v=KhJ9IwYc5NU