Ci ho messo tanto a scrivere qualcosa su “Arktis.”, il sesto album da solista di Ihsahn, perché ogni volta che lo ascolto (ed è passato per i miei auricolari diverse volte durante le ultime settimane) cambia di continuo forma e aspetto. E il fatto che all’interno del disco gli stili e le influenze siano davvero variegati non aiuta per niente: dall’ovvio black metal, alla meno ovvia elettronica, alla più ovvia ambient (considerando il percorso di molti vecchi blackster), al progressive. È proprio per la vena più smaccatamente prog che “Arktis” si discosta dai lavori passati dell’(ex?) Emperor, regalandogli una profondità mai vista fino ad ora.
Il primo assaggio tocca a “Disassembled” e al suo feeling heavy ottantiano. Una opener onesta, ma Ihsahn tiene in serbo il meglio per i pezzi successivi, preparandoci all’ascolto di quella che si presenta più come un’esperienza multisensoriale che un disco: la capacità di calibrare alla perfezione caos e aggressività con una sorta di pace mistica, quasi un’allucinazione o un sogno, sta nella transizione tra questi elementi, talmente liscia che sfido anche l’ascoltatore più attento a coglierla.
Ma tornando a bomba, i primi tre pezzi di “Arktis.” sono quelli più caratterizzati dai riff di chitarra e quindi più classici. Ma già con l’elettronica acida e dark della dissacrante “South Winds” si cambia registro. Registro che si trasforma nuovamente con il sassofono di “Crooked Red Line” e con l’ossimoro (sia linguistico che sonoro) di “Celestial Violence”, pezzo drammatico e solenne che cala come un sipario ideale su “Arktis.”
La personalità sfaccettata di Ihsahn si riflette in questo lavoro, che è molto difficile da paragonare a qualsiasi altra opera. Come anticipavo qualche riga sopra, “Arktis.” pretende tanti ascolti, tanto tempo e tantissima attenzione, ma ogni volta ripaga con qualcosa di nuovo: una nuova chiave di lettura, uno spunto, o più prosaicamente, un genuino moto di invidia per quanto cazzo sia geniale Ihsahn.