In ogni categoria della vita è facile, naturale stilare delle classifiche e un festival, pur se disposto per essere fruito orizzontalmente, senza competizioni, rientra nella normalità.
E il Primavera Sound il suo asso lo ha calato proprio sul finire, con il concerto più bello, intenso, curato, intrigante, a opera di una ispiratissima PJ Harvey, che davanti a una folla di almeno trentamila unità, ha sbaragliato la concorrenza di questi tre giorni catalani, con una performance sbalorditiva per la scelta dei suoni, la precisione dei dettagli, le soluzioni estetiche, che hanno suggerito una divisa scura a tutta la band e la proiezione sui grandi schermi in rigoroso, affascinante bianco e nero. Ma sono le virtù da sublime dark lady del rock contemporaneo che ha visto svettare il carisma di Polly Jean, forte di un nuovo, positivo album “The Hope Six Demolition Project”, e di una formazione che sotto la guida del grande John Parish distribuisce tossine, fibrillazioni, scossoni al corpo e allo spirito, con un baricentro spostato sui fiati e le chitarre, dove fanno la loro parte due talenti tutti nostrani, Enrico Gabrielli e Alessandro Stefana, che meritano di trovare all’estero le giuste gratificazioni. Orgoglio sacrosanto, anche questa rientra nella casistica della fuga dei cervelli.
Ma tutta la terza giornata ha goduto di notevoli conferme e di piacevoli rivelazioni, soprattutto per quegli artisti che da noi faticano assai a circolare. Pur se meno rivoluzionari e sconcertanti che agli esordi, convincono i Sigur Rós, in particolare nella gestione del loro patrimonio di suoni e luci con cui ergere una cattedrale immaginifica cui perdonare anche qualche ingenuità o furbizia. Con il loro show tagliano una notte buia, senza luna e manifestano tutto il loro valore (e originalità). Abili.
E se nel pianificare il calendario la direzione artistica ha, con un bel colpo d’ala, deciso di dare spazio anche a nomi dimenticati del metal più antico e parossistico come Angel Witch e Venom, o recuperando il marchio dei Current 93 e una figura profetica come il suo leader dalla storia ultratrentennale David Tibet, ecco a sparigliare il gioco anche altre proposte da plaudire: la sensuale, intimista californiana Julia Holter, i magnetici, coraggiosi Deerhunter, il prorompente, tumultuoso Ty Segall, giovane e pimpante nella sua produttività bulimica e ansiogena, che evidentemente dal palco si traduce in portentoso carburante per l’esibizione.
Bello poi sapere che ai 200mila certificati che hanno varcato i cancelli del Parc del Forum nei tre giorni – cui aggiungere quelli andati a frequentare le altre iniziative in città – si è voluto offrire anche segnali di quanto può arrivare dal resto del mondo. Che fossero i rumoristi giapponesi dei Boredoms, oppure i deliziosi senegalesi Orchestra Baobab, è indubbiamente un modo esemplare per esaltare e proteggere, diffondere la cultura delle diversità. In un festival che non ha ammesso nessun contrattempo, neppure climatico, e ha ribadito tutti i pregi di una organizzazione che lo rende di facile consumo e fruizione, non si doveva fare a meno di una celebrazione-anniversario. Proprio nei giorni in cui cade il cinquantesimo di “Pet Sounds” palco d’onore per Brian Wilson e la sua affollata masnada di revivalisti sull’onda Beach Boys.
Oltre all’album-capolavoro in versione integrale sono state dispensate canzoni che fungono da simbolo di una stagione, “Barbara Ann”, “Fun Fun Fun”, “Help me Rhonda”, immortali anche in virtù di una riproposizione simile alle copie anastatiche dei volumi rari e da collezione.
E rara è pure l’anima che il Primavera Sound conserva nonostante i pericoli di una simile crescita, con la macchina non si inceppa e dà già appuntamento al 2017: dal 31 maggio al 4 giugno le date da segnare in agenda. Mancare sarebbe imperdonabile.
Si ringrazia Enzo Gentile