Jack White – Acoustic Recordings 1988-2016

jack-white-acoustic-recordings-1988-2016-recensioneSe qualcuno mi avesse chiesto di definire lo spirito del rock, lo avrei fatto descrivendo un bambino che afferra per scelta un gelato dalla crema, non dal cono. E questo prima ancora di sapere in età adolescenziale che la mia visione piuttosto punk delle cose ha una mediazione di genere musicale che fa di nome “garage rock”. Erano i primi Duemila e, nemmeno a farlo apposta, quel tipo di musica aveva scavato una breccia nell’immaginario popolare con un tormentone che era diventato tale partendo dall’ambito calcistico: si trattava di “Seven Nation Army”, il “po-popo-po-popo-po” firmato White Stripes. Se si poteva pensare che fosse il classico colpo di fortuna isolato di una band nata dal sottobosco della musica indipendente, il tempo avrebbe invece consacrato Jack White, cantante della band, da strambo personaggio dalla capigliatura burtoniana a icona del mondo musicale. L’ultima fatica “Acoustic Recordings 1998-2016”, pubblicata dalla sua etichetta Third Man Records, serve proprio ad auto-sconsacrare questo mito e lo fa nel più elegante dei modi: senza chitarre elettriche ma con un sacco di blues.

Approcciarsi al doppio LP è infatti qualcosa che i fan devono fare con la dovuta cautela. Dimentichiamoci delle distorsioni a cui il cantante di Detroit ci aveva abituato: a far da padroni indiscussi, come si può presupporre dal nome dell’album, ci sono suoni centellinati e acustici, in cui alle amate sei corde si affiancano archi, qualche marimba e i piani un po’ dissonanti nella migliore tradizione whiteiana. Il tutto serve a trasportarci in un’odissea nella carriera musicale dell’artista, dai primi esordi con i White Stripes al fortunatissimo progetto da solista, passando dalle parallele composizioni con i Raconteurs. È un viaggio in cui lui stesso ci fa da Cicerone, piazzandoci davanti all’ascolto di pezzi storici (“Sugar Never Tasted So Good”, “Hotel Yorba” e “We’re Going To Be Friends”) e all’unreleased di “City Lights”, unico vero inedito di entrambi i dischi.
E se la mancanza di novità può lasciare con l’amaro in bocca, la finezza degli arrangiamenti colma senza troppe difficoltà la lacuna. Quasi ogni pezzo, infatti, è riarrangiato da zero in modo da sembrare una assoluta novità, al punto da poter essere tranquillamente inserito in una di quelle playlist folk che tanto vanno di moda nei negozi di abbigliamento. Fa la differenza con il panorama folk il fatto che ognuno di quei pezzi in realtà sia nato da brani in grado di infuocare il palco. Qui emerge la genialità di un compositore che con il fuzz ha mascherato dei piccoli (grandi) capolavori di intimità.

Proprio quell’intimità ha due grandi polmoni nel doppio album: quello melanconico ma contemporaneo di “Love Is The Truth”, colonna sonora di un perduto spot Coca-Cola, e quello più vintage di “Top Yourself”, canzone scritta per il progetto parallelo dei The Raconteurs. Nella seconda categoria di pezzi emerge l’amore di White per il blues delle origini, di cui si è premurato di ristampare numerosi vinili con la sua Third Man Records. E come i vecchi bluesman si fa cantautore della propria storia, a cui ci permette di partecipare da spettatori attivi, rendendo l’esperienza a 360° con l’apertura di un sito interattivo.

Tutto questo serve a dire che “Acoustic Recordings 1998-2016” di Jack White non è un inutile sentimentalismo ma un passaggio obbligato di un genio che ha dato prova della propria maturità, adattando un genere musicale più morbido alle proprie esigenze di ammazza-dèi; partendo, in primis, dall’uccidere se stesso ma solo per rinascere in una forma né migliore né peggiore, ma sicuramente più ricca.

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