A due anni di distanza da “Gli Ammutinati del Bouncin”, Alessio Mariani in arte Murubutu pubblica “L’uomo che viaggiava nel vento e altri racconti di brezze e correnti”.
Rispetto ai lavori precedenti, in questa nuova creazione del rapper emiliano, è evidente un passo in avanti a livello musicale. Leggero, ma determinante. È come se, nel tentativo di rendere il tutto più omogeneo e musicale, si sia scelto di far scorrere la voce di Murubutu su campionamenti più dolci. “L’uomo che viaggiava nel vento e altri racconti di brezze e correnti” è un album capace di rapirti e portarti in un’altra dimensione.
Quattordici canzoni, quattordici fotografie con una luce perfetta, fanno di questo album un vero e proprio racconto in musica. Come se avessimo di fronte a noi una sorta di audio libro 2.0 versione rap, non ancora in commercio. Noi ascoltatori possiamo ritenerci fortunati, abbiamo la possibilità di avere tra le mani un pezzo raro e unico, specialmente in un periodo dove il rap italiano ha perso di vista l’importanza della parola, andando verso a una scrematura dei testi. Testi ridotti all’osso.
Come Nanni Moretti in “Palombella rossa”, Murubutu dà un bello schiaffone a questo tipo di rap “smart” che ha invaso le classifiche italiane.
Il suo concept album, incentrato sul tema del vento, risponde in modo affermativo alla domanda che negli ultimi anni si sono posti in molti: i rapper possono essere visti come i nuovi cantautori? La risposta, come detto, è sì. Perché il rapper emiliano è probabilmente il miglior storyteller italiano e, come nessun altro, è capace di mettere in metrica all’interno di un disco così tanti riferimenti culturali, dando molta importanza alla scelta delle parole. Quello di Murubutu non è un disco semplice. È un punto di vista diverso di quello che può essere e, allo stesso tempo, è il rap.