Il Liga è tornato, e questa volta lo ha fatto con un concept album. “Made in Italy”, la nuova fatica di Luciano Ligabue è uscito da qualche giorno, anticipato dai singoli “G come Giungla” e “Made in Italy”. Singoli che ben svolgono il proprio compito di catalizzare l’attenzione sull’album, nonostante la decontestualizzazione, con il loro taglio radiofonico. Prima di addentrarci nella storia di Riko, una precisazione è di dovere: l’album non è (ancora) stato pubblicato su Spotify o Deezer, e per apprezzarlo appieno è consigliabile l’edizione fisica, che oltre alle classiche trascrizioni dei testi dei brani allega alcune lettere scritte dal protagonista all’amico Carnevale, utili per immergersi al meglio nella narrazione.
Un concept album difatti è un disco che racconta un’unica storia, usando i brani come capitoli di un libro o atti di uno spettacolo. Il protagonista è Riko, una sorta di alter ego finzionale di Luciano Riccardo Ligabue: in un mondo in cui non ha sfondato nella musica, Riko è “un uomo di mezza età, che viene licenziato e vive una forte crisi di identità. […] Mi è venuto il desiderio di provare a capire se quella di Riko poteva essere la mia vita se non avessi trovato uno che pagava di tasca propria il mio primo album, oppure se è un mio alter ego, la mia vita che sta scorrendo parallelamente, dando credito alla fisica quantistica, o semplicemente una parte di me.”: così si è espresso Liga presentando il disco (qui la nostra intervista per intero).
“La vita facile” apre le danze con un riff che dà subito il la alle tematiche del disco: un rock operaio e narrativo, verso il quale i testi di Ligabue si orientano già da tempo (“Non ho che te” è un chiaro precedente musicale e tematico). “Chissà com’è la vita facile?” si chiede il protagonista. In svariati brani si ritrovano sonorità e richiami al rock anni settanta e ad altri vari generi: qui si ritrova l’ombra degli Who. “Mi chiamano tutti Riko”, si presenta il nostro narratore nella traccia successiva, mentre il rock sfocia nel funk. Riko ha messo su famiglia molto presto e ha proseguito il lavoro del padre. La sua storia è quella di tanti. E non a caso, viste le premesse, il brano successivo è un innegabile omaggio al sound e alle tematiche della E Street Band di Bruce Springsteen: “È venerdì, non mi rompete i coglioni” si inserisce al meglio in quel filone composto da brani come “Out In The Street”, e in generale ricorda l’album “The River”.
La più classica delle critiche a Ligabue su questo album regge poco: perché questi pezzi non sono affatto tutti uguali. E forse sarà sempre un rock diretto da quattro accordi e via, come buona parte del rock (se non si amano il prog e i virtuosismi), ma gli arrangiamenti sono originali e vintage allo stesso tempo.
“Vittime e complici” ci fa annusare la muffa alle pareti di casa, metafora dei problemi matrimoniali, mentre in “Meno male” tocchiamo con mano il senso di colpa dei sopravvissuti: quello dovuto al sollievo provato dopo essere scampati al licenziamento. “Hai sentito chi han lasciato a casa? / Che vergogna ritrovarsi a pronunciare meno male”. In questo delirio, l’unica legge è quella del più forte: il quotidiano diventa una lotta, una guerra, una giungla. “Si trova sempre una ragione per brindare” canta Liga (o Riko?) in “Ho fatto in tempo ad avere un futuro (che non fosse solo per me)”, all’eterna ricerca di qualcosa di positivo, una nuova tappa da raggiungere, dopo aver bruciato e sorpassato tutte le precedenti.
Ma la situazione è quella che è: non si può stare con le mani in mano. “Riko sente che qualche cosa va fatto, e va a una manifestazione, pur sapendo che ha un’incidenza bassissima rispetto ai cambiamenti” racconta il cantante a proposito di questo brano. Il corteo della manifestazione degenera, e ne “L’occhio del ciclone” non ci sono ragioni. Anche il ragazzo con la divisa ha paura, e con un brivido abbiamo un sentore di come andrà a finire. Una manganellata in testa, e Riko è a terra: “Quasi uscito” è un brano acustico e arpeggiato, quasi una sequenza al rallenty che ci mostra la caduta e il conseguente black out del nostro protagonista, mentre dietro ai suoi occhi chiusi sente le voci attutite di chi lo chiama per riportarlo alla realtà, prima di affidarlo alle sapienti mani di una “Dottoressa”.
Il poliziotto ragazzo è mortificato, e passa in ospedale a trovarlo. Per fortuna il colpo è stato di striscio. Ma non tutto il male viene per nuocere: durante i suoi “Quindici Minuti” di popolarità, tra un accertamento medico e l’altro Riko si riavvicina alla moglie Sara. Lo evinciamo dalla corrispondente lettera a Carnevale: “Abbiamo fatto un po’ di chiarezza e di pulizia. Abbiamo parlato”. Il brano è un reggae: “chissà cosa staranno dicendo nel mio quartiere?” si chiede il protagonista. All’arrivo di una notizia più fresca ovviamente i giornalisti se ne vanno: “Apperò” è un breve intermezzo voce e ukulele.
La rediviva coppia si lascia andare a un po’ di ritrovata felicità: una seconda luna di miele, da Torino a Palermo, passando per Bologna, Milano e Napoli. Un viaggio nel “Made in Italy”, che apre le porte verso “Un’altra realtà”, che nessuno regala ma bisogna sforzarsi di vedere.
Non c’è molto da aggiungere: l’album dice tutto. Ligabue si lascia andare allo storytelling come non mai: per improbabile che sia, sarebbe interessante ascoltare il disco per intero durante il prossimo tour (come accadrà tra pochi giorni a Firenze). La tournée di concerti partirà a febbraio: qui il calendario completo.