Nel primo scampolo di primavera che bagna le coste milanesi Jamiroquai porta il suo show all’interno del Datch Forum di Assago. Il nuovo album (Rock Dust Light Star) ha avuto un buon successo, anche in vista del temerario switch discografico che ha visto la band londinese cambiare cavallo in corsa e saltare, dopo una vita passata in Sony, alla Universal. Nonostante il mercato U.S.A. rimanga ancora per buona parte un taboo per Jay Kay e soci, la fama che ormai accompagna il gruppo gli consente di essere persino disattenti rispetto ai cugini d’oltreoceano.
Lo show, il cui inizio era previsto per le ore 21,00, tarda, anche se di poco. Inizio che, senza troppi giri di parole, si potrebbe definire in sordina. La band non “esplode” da dietro le quinte, ma, dopo una mesta apertura sipario, attacca lentamente la sua performance, come un motore in preda al gelo invernale in affanno a prendere giri.
Più che un evento al Datch Forum sembrava un incipit da pub irlandese. Deludente anche l’impatto sonoro che manca di quel muro di suono voluto e ricercato durante le performance live, la voce di Jay Kay gioca a nascondino tra gli strumenti che già per loro conto non brillano per veemenza. È necessario aspettare il terzo pezzo (Cosmic Girl) per cominciare a sentire il groove crescere sotto le suole delle scarpe e rendere lo staticismo imbarazzato da primo approccio un ricordo. La band in ogni caso è sul pezzo, come si suol dire in questi casi, e le evoluzioni danzereccie del suo capitano sono la giusta miscela per schiodare le membra indolenzite di un forum che ha passato la giornata ad una scrivania. Jason Kay ha ormai quasi codificato uno stile di movimento, spostamenti lievi, impercettibili e meccanici, che si accostano a salti strappa applausi, un capo indiano che balla la sua magia.
Tanta professionalità che però mette nell’ombra un pathos e un trasporto che definirei assenti, gli stessi passi danzati di Jay Kay sembrano far parte di un copione prestabilito, ripetuto serata dopo serata, a discapito della forza e dell’improvvisazione che sono spesso l’hardcore di un’esibizione dal vivo. Una “forma” fin troppo soffocante, dove viene concesso poco spazio all’ in-mediatezza e al sentimento, dove manca l’espressione più sanguigna, che fa di una macchina seppur imperfetta qualcosa di caratteristico. È pur vero che il sound di Jamiroquai appartiene esclusivamente a lui, ma nonostante questo pare spersonalizzato e confuso, presente ma distratto, un arrosto bello e succulento dove manca la “puccia”. Jamiroquai è da sempre un “prodotto” che alla qualità musicale ha associato un lay out estetico, nessuna band se ne può esimere e di questo ne siamo certi, sarebbe laconico il contrario, eppure è sempre riuscito a inculcare l’idea che il frontespizio fosse solo lo strumento di apparizione, in quanto dietro, la vera ciccia, il sangue c’erano e si facevano sentire, il movimento era intrinseco, un bit implicito irresistibile.
Pare sia in corso una scarnificazione.
Per tutta la durata della serata, i Jamiroquai non sembrano avere fretta. Lunghe pause dialogate tra i membri stessi della band tra un pezzo e l’altro, quasi a voler decidere i brani seduta stante. Nessuna coreografia degna di particolare nota, sfondi colorati e pianeti calati dall’alto a ricordare la forte tensione ecologica che fin dagli inizi con “Emergency on a Planet Earth” aveva contraddistinto la filosofia, quasi la ragione sociale, del sestetto britannico. Lentamente, verrebbe da dire quasi silenziosamente, passano un pezzo dopo l’altro, e i momenti di slancio emotivo sono ben definiti, concessi con parsimonia, conseguenza del fatto che i Jamiroquai certo non sono la band da canto a squarciagola, frasi sussurrate tra il pubblico che intona per lo più i ritornelli dei classici, un alleluia domenicale.
Il crooner della serata, Jason Kay, nonostante un vestito da space cow boy bianco e sfrangiato e qualcuna delle sue mosse, appare vistosamente irrigidito rispetto alle performance atletiche non stop alle quali ci aveva abituato negli anni. Il tempo segna anche gli eterni immortali cristallizzati nella loro giovinezza dalla promotion pubblicitaria. Dopo 2 ore di musica, dove la serata pare non essere mai decollata pienamente e un breve encore, si segnala quale grande assente nella setlist un classico del repertorio jamiroquaiano del quale i nostri non si dovrebbero privare: Virtual Insanity.
Setlist: Rock Dust Light Star – Main Vein – Cosmic Girl – Smoke And Mirrors – Use The Force – You Give Me Something – Hurtin’ – Little L – Canned Heat – Deeper Underground – Love Foolosophy – Travelling Without Moving – All Good In The Hood – Feels Just Like It Should – Alright – White Knuckle Ride
Francesco Casati