Gorillaz – Humanz (Deluxe)

Voi come immaginate la fine del mondo? Perché se mi facessero la stessa domanda io risponderei con un mix di quelle immagini dei film distopici degli anni Novanta: rave party, capelli gellati, stivali metallici con la zeppa e un sacco di altre cose da cui speriamo non attinga mai più la moda. A quanto pare anche Damon Albarn ci ha pensato, regalandoci la colonna sonora perfetta per l’occasione con “Humanz”, ultima fatica discografica del progetto cartoon dei Gorillaz uscita sotto Parlophone.

Seguito solo nominale di “The Fall”, disco del 2011, “Humanz” è il concept album che stavamo aspettando in un mondo in cui le cose vanno come stanno andando. E non parlo solo di Trump presidente degli Stati Uniti o della musica latina nelle classifiche, perché quello di cui parlano Albarn e soci è una visione che va ben oltre la contemporaneità e che descrive uno scenario già post-apocalittico. Ne è prova la rimozione di ogni riferimento politico diretto, in modo da rendere l’album il più estemporaneo possibile. A rendere l’LP una sorta di vero e proprio Nostradamus dei tempi ci sono le varie collaborazioni che appaiono nella tracklist di ventisei brani, con personaggi affermati e astri nascenti della musica. Fra i nomi di cui ci si ricorda con più facilità ci sono Vince Staples, i De La Soul, Grace Jones (per uscire un po’ dal genere rap) e Pusha T tra i tanti che decorano i brani dei Gorillaz, come gli interludi parlati inframmezzano la narrazione di questo libro-rave, dandoci un tantino di apocalisse verbale durante l’ascolto. Ne è prova “The Non Conformist Oath”, in cui la folla giura di essere assolutamente unica ripetendo il mantra recitato da un predicatore. È la stessa situazione apocalittica e paradossale che il disco si trascina dietro dall’inizio alla fine, iniziando da “Ascension”, passando per “Saturn Barnz”, “Charger”, “Hallelujah Money” (singolo di annuncio dell’album con il featuring di Benjamin Clementine) e arrivando a “The Apprentice”, ultimo singolo uscito con Rag’n’Bone Man, Zebra Katz e RAY BLK.

Non che il tema sia nuovo nell’ambito musicale, che di apocalittici e elettronici ne ha già visti dagli anni Settanta (cfr. Radioactivity dei Kraftwerk, datato 1975). La differenza in questo caso la fa il gusto selettivo della band, che scrive del futuro nello stesso linguaggio del futuro, sia dal punto di vista dei suoni che della tematica e dei featuring. Quello che si costruisce ascoltando l’album sembra quasi una performance che immedesima l’ascoltatore in un mondo in cui tutto è perduto ma comunque si è a una festa; e come a tutte le feste ogni tanto si balla, ogni tanto c’è il dovuto momento di down. Quello che rimane da capire è se si possa evitare di arrivarci, in quel mondo.