Stone Sour – Hydrograd

Devo ammetterlo, ero pronto a sparare fuoco e fiamme sopra questo nuovo album degli Stone Sour,Hydrograd”. Mi era piaciuto e mi ero esaltato parecchio all’uscita del primo singolo “Fabuless” con relativo videoclip molto divertente, fatevi un giro sul tubo per conferma. Poi però troppi estratti, altri tre e non troppo convincenti. Diminuivano di parecchio il tritolo esploso dal primo spunto e lasciavano presagire un altro lavoro confusionario di Corey Taylor e soci e una tacita conferma all’uscita polemica di Jim Root deluso dall’andazzo troppo commerciale del gruppo.

Questi presentimenti non sono stati sconfessati, badate bene. Ci sono tutti, l’alto numero di estratti si concretizza in un’opera molto lunga. La sensazione di passare di palo in frasca da un’attitudine all’altra è rappresentata da pezzi molto orecchiabili, a svolte heavy metal, a cambi repentini addirittura di genere musicale. Il tanto vituperato cambiamento di rotta verso quel commerciale che garantisce larghe masse di ascolto tocca in questo disco punte estreme, ma ha anche appigli che ci ricordano che questo progetto nasce come costola minore del fratello maggiore (anche se anagraficamente più giovane) Slipknot, condizione che, chissà, in futuro potrebbe essere ribaltata o totalmente re-impostata dall’esplosione e definitiva consacrazione della carriera solista di Corey Taylor. In questo album c’è una chiara anticipazione a questo scenario futuro, ma ci arriveremo.

Ascoltiamo quindi questo “Hydrograd” che dopo una intro di un paio di minuti “YSIF” parte fortissimo con un lotto di pezzi decisamente granitici che convincono non poco. “Taipei Person/Allah Tea” sono ben 5 minuti di heavy metal veloce, l’avevamo già sentita, ma investita del ruolo di apripista, invece che lanciata in rete così a caso, si prende le sue responsabilità e gioca egregiamente tra divertimento e durezza del suono, coadiuvata da melodie più leggere che creano un contrasto delizioso da masticare per le nostre orecchie. Si muove già la testa, e andando avanti si migliora perché “Knievel Has Landed” spinge ancora di più sull’acceleratore e aumenta la pesantezza delle pestate sul pavimento aggiungendo una coda di sporcizia nel suono del basso e della parte vocale, che approfondisce la proposta fin qui ascoltata e aumenta l’interesse a un lavoro su cui non puntavo un soldo bucato.

C’è la title track già nella prima parte del disco, e lo scetticismo maturato in settimane durante le quali gli estratti non mi avevano per nulla convinto subisce un altro duro colpo con questo riff cosplay di Tony Iommi e un tipico impianto melodico in cui Corey Taylor appare in uno dei suoi migliori stati di forma non mascherati. Altra faccia già vista “Song#3”, il mio personale momento di peggior mood riguardo questa nuova uscita, arrivando persino a pensare di essere preso per i fondelli dal signor Taylor. Invece, come spesso accade, mi accorgo di essermi sbagliato perché pur confermando di non essere un pezzo memorabile, all’interno di questo grammelot musicale (passatemi il termine, siate buoni) funziona bene con la sua fluidità senza picchi che a un ascolto singolo e decontestualizzato disturba per la sua anonimità, ma qui è un piacevole cuscino melodico che scorre senza adombrare.

Fabuless” già sappiamo che è il miglior estratto pre-uscita, mentre ecco il primo filler dell’album. Un’opera così lunga ha dei riempitivi fisiologici che non bisogna demonizzare anzi, hanno spesso il loro ruolo nell’ascolto globale di un disco. A volte sono dei chiodi sul coperchio di una bara, ma qui sono piacevoli come questa “The Witness Trees”, la stramba “Red Rose Violent Blue (This Song Is Dumb & So I Am)” o la vivace “Mercy”.

In questo variegato lavoro abbiamo anche due episodi di violenza metal di altissimo livello rappresentati daWhiplash PantseSomebody Stole My Eyes che ammiccano parecchio al repertorio Slipknot pescando però nel classico sound thrash metal. Mi ha colpito particolarmente “Friday Knights”, veloce e violenta ma anche distorta e fuggevole come la superficie plumbea di un lago di montagna. Meravigliosamente strana e imprevista.

C’è la ballatona ovviamente, e anche qui “Hydrograd” ci stupisce non ampliando ulteriormente il bagaglio di stucchevoli ballad del gruppo ormai diventato troppo corposo e pesante. Qui Corey Taylor apre una finestra sul suo possibile futuro discografico ammiccando al country in “St. Marie” e il risultato è di impatto. Il suo timbro ha questo futuro, non certo quello di chissà quante altre produzioni del circo itinerante mascherato. Bisogna farsene una ragione.

Nel frattempo questo “Hydrograd” ci distrae piacevolmente con un numero impressionante di facce e virate schizofreniche, ma che a differenza dei precedenti dischi degli Stone Sour, suona coerente e compatto.